La rivoluzione è facile se sei cinico, disinvolto e incredibilmente fortunato

Il ritratto dei giovani Kepler-452 tra risate e Sgomento
Crisi esistenziale post-laurea vs realtà

 

«Tu, allora, che avresti fatto?» è l’interrogativo che resta frustrato come le ambizioni degli interpreti de La rivoluzione è facile se sai come farla e comuni a un’intera generazione, quella degli attuali venti/trentenni.

Proprio il trentacinquenne Quit the doner, pseudonimo di Daniele Rielli, poteva descrivere e tratteggiare le storie dei due protagonisti con il linguaggio e i riferimenti socio-culturali dei coetanei, i cui disattesi sogni carrieristici e professionali sono messi in scena dalla compagnia Kepler-452 e interpretati da Nicola Borghesi e Paola Aiello.

Lui, aspirante scrittore, in cerca della pubblicazione del suo romanzo L’inderogabile altitudine della rivoluzione trova la concorrenza di Sgomento, opera ultima di Paterno Rondone, che è tutto e il contrario di tutto. Lei, sceneggiatrice in erba, si scontra con il mondo delle raccomandazioni e dell’anzianità, in cui emergere dall’anonimo sostrato bolognese è assai difficile.

Foto di Michelle Davis

Sotto la regia di Nicola Borghesi, il racconto si articola in piccoli quadri di narrazione giustapposti e alternati tra i due attori, in mezzo ai quali interviene Lodo Guenzi, nei panni di un declamatore delle pagine inedite, di editor cinico e rispondente alle leggi di mercato e di un direttore teatrale disincantato. Sulle musiche de Lo Stato Sociale, non dal vivo al contrario di quanto l’allestimento da concerto può far pensare, si snodano in una sequenza frammentata e rapsodica i fallimenti e le speranze di successo quotidianamente frustrati, comuni a tutti i venti trenta (nome del Festival a cui Nicola Borghesi ha dato vita nel 2014), ovvero alla generazione new cultural che tra una «birretta sul Pratello» e un altro episodio di Breaking bad insegue tra attacchi di panico e terapie del lunedì il proprio sogno di sfondare, di brillare, di distinguersi dalla massa.

La voglia di emergere è trasmessa a 360° dalla gestualità che subentra a supporto della parola e delle emozioni, infatti gli attori si muovono, corrono, si siedono e saltano sopra e intorno alle casse di plastica gialla che popolano il palco, adattandosi ai contesti formali e informali nei racconti che si susseguono.

Ma questi «bambini speciali» cresciuti a sogni e competenze, come in un raptus di sincerità urla l’editor milanese, giocoforza cozzano con una realtà atrocemente cinica, in cui disincanto artistico e politiche economiche portano alla progressiva accettazione del conformismo e alla temuta scesa a compromessi pur di fare qualcosa, rappresentata dal posto all’anagrafe comunale in cui lavora il babbo. I due protagonisti, infatti, non hanno il manuale d’istruzioni per fare una rivoluzione, per sconvolgere drasticamente i rapporti di forza che li soggiogano, ma, in fondo, “rivoluzione” altro non indica che un giro, un viaggio circolare alla fine del quale si torna al punto di partenza.

Kepler-452 fa un ritratto schietto e sincero della propria generazione, parlando a questa con i codici linguistici e comportamentali che la contraddistinguono. In ciò probabilmente si potrebbe ravvisare il limite più grande dello spettacolo, ovvero potrebbero non essere del tutto accessibili i suoi contenuti a coloro che non si rispecchiano in quel target d’età, ormai assuefatti ad altre logiche e obbedienti a diverse priorità. Ma chi d’altra parte vive anche marginalmente questo spaccato sociale, può partecipare emotivamente alle vicende, nei suoi tratti espressivi, talvolta pittoreschi.

A chi di quella generazione invece fa parte la narrazione non lascia nuove esperienze, perlopiù l’autoconsolazione di aver condiviso ciascuno nella propria vita in misura più o meno variabile l’ansia sociale dell’ingresso nel mondo del lavoro, da cui scaturisce in risate amare il “mezzo gaudio” proverbiale. Non manca, però, l’autocritica, scioccante e urlata dall’editor milanese Passalacqua, che sbatte in faccia all’aspirante scrittore tutte le sue velleità in un lungo monologo pieno di quella onestà, che per convenzione sociale viene spesso taciuta e dissimulata.

L’ingenua ambizione generazionale e l’autocommiserazione messe in scena danno allo spettacolo una patina di autoconsolazione, a tratti apologetica, con un sotteso invito allo sconvolgimento della propria vita rappresentato dallo strenuo esercizio di convincimento che il posto fisso non sia un compromesso ma un’opportunità, mentre diventano un’iniezione di autostima per i venti/trentenni che nonostante tutto ce l’hanno fatta.

a cura di Glenda Giacomelli