Io non sono un grande attore. Intervista impossibile a Gali, il levriero de “L’arte del teatro”

Siamo entrati in un appartamento che sembra a prima vista normale. Periferia, negli odori, nei i suoni. Sulle finestre ci sono i segni di vecchi addobbi natalizi, riusati ogni anno da decenni. L’intervistato ci guarda indifferente, da quando ci ha fatto entrare non ha detto una parola. Mentre ci sistemiamo per l’intervista nemmeno ci annusa, non si gratta, ogni tanto si alza e mangia qualcosa dalla sua ciotola. È il coprotagonista de L’arte del teatro, di Pascal Rambert, un levriero russo.

Cominciamo l’intervista con un’ora di ritardo, Gali si stava rotolando sul suo tappeto preferito (ci dicono essere abitudinario).

 

La sala ha fatto un bel po’ di rumore durante la pièce, ma né lei né Musio avete reagito in alcun modo. Vi ha dato fastidio?

No. Non vedo perché, poi, dovrebbe darci fastidio [Si gratta l’orecchio destro]. La scena deve respirare la stessa aria dell’ambiente, è normale. Proprio come non sai cosa potrebbe fare un attore in scena è altrettanto vero che l’attore non sa come si comporterà il pubblico. Pensa poi un cane! Potrei mordere il sedere di qualcuno in qualsiasi momento! Sto scherzando ovviamente. La verità è che il pubblico non è più abituato alla realtà ma si è assuefatto alla rappresentazione. So che sembra una roba uscita fuori da un saggio di Galimberti, un filosofo cane, ma è così. Una pièce come la nostra vuole che il pubblico reagisca, anche la recitazione infatti cangia, di poco, a ogni replica, perché è viva e vegeta, e reagisce agli stimoli, alle punzecchiature sul suo flaccido corpo.

Non aveva paura che qualcuno potesse passargli le pulci? O che magari credessero che lei le avesse…

Quando vado a teatro, come al cinema o in discoteca, porto sempre il collare anti-pulci. So che alcuni della mia età non lo fanno, ma credo sia importante sopratutto per i giovani, come esempio. Il pubblico può pensare quello che vuole, ma ogni volta che vado in scena il mio pelo è più lucido che mai. Le luci del palcoscenico mi amano.

L’uso smodato di anafore lascia nello spettatore una serie di immagini piuttosto vivide, tra cui l’attore fatto di sangue, lacrime e sperma.

[Gali annusa col viso contrito il padrone, produce un borbottio e poi riprende:] In realtà l’attore è prima di tutto nervi. Scatta, corre, e poi d’improvviso si spegne con un soffio. Anch’io ero così da giovane, ogni tanto qualcuno tirava un bastone e io mi lanciavo a prenderlo! Ora aspetto che me lo riportino loro. L’attore è viscere, sperma e lacrime perché è reale. La gente reagisce alla realtà, ne è sconcertata, non crede ci sia posto per questa a teatro. Amleto tiene sulla sua mano un teschio finto e riflette sulla morte, in pratica è come se io tenessi un osso di plastica per ragionare sulla fame nel mondo. Il grande attore non rappresenta, non si lascia sopraffare dalla parola, dal personaggio. Il personaggio è lui, non viceversa.

Eppure l’attore che vediamo in scena con voi sembra sfinito. È trasandato, rancoroso.

Perché ha vissuto l’illusione che quella spinta (di natura principalmente pelvica) l’avrebbe trascinato per sempre, una forza inerziale che non si poteva estinguere. Ed invece s’è estinta eccome, o almeno quasi. Quando si è giovani il fuoco degli ormoni brucia ogni neurone, ti metti a scodinzolare anche per quella strana della classe [Gli scappa un abbaio dal suono nostalgico]. Un tempo gli bastava sussurrare qualcosa dal palco per avere tutte le ragazze che desiderava, trascinandole oltre il proscenio, nella sua dimensione. Ma si è accorto che quello che le attirava, e la dimensione dove le portava, non era la realtà ma bensì la rappresentazione.

Insomma: sebbene lo sforzo la vita e la recitazione sono due cose troppo diverse.

Lo dice anche il testo, no? «La vita per quel che è, è talmente più bella di quanto avrei potuto fare». Lo sforzo, dunque, è inutile.

Sembra piuttosto pessimista.

[L’intervistato si alza su tutt’e quattro le zampe, indispettito] Non lo è invece, perché alla fine rivela anche una grande verità, cioè che l’amore è al centro di tutto. Vede: noi cani amiamo molto, amiamo a dismisura. Accettiamo la lontananza, ma anche se torni dopo tanti anni sarai sempre ben accolto con tutto l’amore che abbiamo in corpo. Se ci regali un pupazzetto quando siamo cuccioli ce lo porteremo dietro per sempre. I calzini poi! Quanto amiamo i calzini! E i cuscini! Strapparli dal letto, distruggerli in mille pezzi, cospargere le loro budella per tutta la casa e… [Gali si è infervorato, è salito sopra il divano in preda ad un furore mistico, ma adesso sembra che non sappia come ci sia arrivato. Si ricompone in un attimo] L’amore è fedeltà sottintesa, è fiducia reciproca. Mangio dalla tua mano e non mi chiedo cosa tu mi dia. Quando vivi un amore del genere, allora le cose effimere come il teatro diventano piacevoli a nuovi livelli.

Parla di amore, ma lei per tutta la pièce è legato a una sedia.

[L’intervistato abbaia un po’ infastidito] E voi forse no? Anche voi quando il grande attore parla, sussurra, insinua, siete legati alla sua voce come una lumaca al suo guscio, ne fate sfoggio più tardi con gli amici, la usate per legittimarvi agli occhi degli altri. Anche io, come voi, quando l’attore mi chiede di ballare resto lì a guardarlo, non oso superare quel limite anche se invitato. Realtà e finzione non dovrebbero mai mischiarsi, come i croccantini di pesce e quelli di carne. Ma è proprio questa ambiguità, di avere un attore che parla di recitazione libera dalle parole del testo, ma che lo afferma proprio ripetendo a memoria da un testo scritto per lui, a rendere lo spettacolo affascinate e pericoloso. Lo spettatore sta sul bordo, è sempre al limite perché proprio come nella realtà non sa cosa accadrà.

[Gali sembra nervoso, il padrone ci dice di averlo sentito ringhiare tra i denti. A questo punto gli facciamo una domanda che ci hanno detto gradirà certamente]

Di recente abbiamo saputo che ha cambiato gusti in tema di croccantini. Una cosa particolare per un noto abitudinario come lei.

[Gali si distende visibilmente, ondeggia la coda e apre la bocca lasciando la lingua a penzoloni] Guardi, è una cosa un po’ buffa. Per anni non ho voluto mangiare i croccantini di pesce. Era una fissa la mia, me la portavo dietro da cucciolo, sa com’è. Poi un giorno il mio attore [è la prima volta che si riferisce a Musio così] si accorse per errore di averne comprato un pacco al posto dei soliti, avevano cambiato le grafiche o cose così. Dopo che ne versò un po’ meno del solito nella ciotola mi sono avvicinato avvertendo subito che qualcosa non andava. L’odore era chiaramente diverso, non terribile come ricordavo, ma riconobbi subito che fosse di pesce. Sulle prime mi rifiutai di mangiarlo, sì, è vero sono un abitudinario ma non per questo se fuori grandina voglio uscire, o se la lettiera puzza ci faccio i bisogni. Dopo qualche ora però la fame sopraggiunse, e mi fiondai sui croccantini come se se fossero dei gatti al forno con foie gras! E non erano per niente male, anzi!

[Ormai scodinzola senza tregua, l’operatore mi fa l’occhiolino per la perfetta riuscita della domanda e continuiamo]

Nello spettacolo sono presenti molti momenti di silenzio, anche se carichi di drammaticità.


Tu dici? [si ferma per un attimo, lentamente va sul balcone e mangia qualche croccantino. Indifferente come se n’era andato torna e ci risponde] Scusate, a parlare prima di croccantini m’è venuta fame. Per rispondervi: perché ci dev’essere qualcos’altro dietro al silenzio? Anche il pubblico sta in silenzio, cosa pensa in quei momenti, solo allo spettacolo? Magari l’attore dice una parola, chessò, «mela» e quella fa accendere in uno spettatore una lampadina: si era dimenticato la torta di mele in forno! E a quel punto la mente spazia oltre le pareti del teatro, per tornarci frastornata e smarrita. Anche il grande attore pensa, e come tutti lo fa in silenzio. Pensa come dire la battuta dopo, o come finirla, pensa a un gesto. O forse non pensa a niente. Io, per esempio, durante la pièce non parlo quasi mai, e penso a molte cose, tra cui la mia incredibile storia con i croccantini di pesce. Il silenzio non è comunque uno spazio dell’attore o dello spettacolo, è uno spazio al servizio del pubblico, che lo riempie a suo piacimento, caricandolo di questo o di quel significato. È la pagina bianca in mezzo al romanzo [si getta per terra, spalmandosi sul pavimento, la stanza adesso è molto più stretta].

Musio/Rambert a un certo punto si scaglia contro chi copia, chi replica Shakespeare, ma è possibile oggi creare qualcosa di completamente nuovo?

[Lo sguardo sempre incolore, non sembra nemmeno che ci stia ascoltando] Mi sa che non ha capito: il problema non è portare Shakespeare, ma come. Fare Goldoni come lo fanno tutti da vent’anni a questa parte non serve a niente, è finzione allo stato puro, l’attore non ha modo di esprimersi. Devi vivisezionare il classico per riprodurlo, devi rianimarlo sul tavolo operatorio come un novello dottor Frankestein, da una parte la scienza (il testo) dall’altra ingegno e la creatività (la follia). Devi essere pronto a compiere un gesto moralmente ed eticamente discutibile, non basta far vestire tutti di rosa per dire. Magari potresti farlo recitare soltanto da cani come me (è proprio una bella idea, fra l’altro! scriva scriva!) [faccio finta di scrivere] Il teatro non è come un dipinto, non è statico, vive dell’azione che è effimera, che non è replicabile, per cui ogni volta che fai le prove ne riesumi il corpo del drammaturgo, mentre la messa in scena è un’operazione a cuore aperto.

Perché il grande attore ce l’ha tanto con i mestieranti?

Perché non sanno far piangere, non riescono cioè accedere alle viscere che dicevamo prima. Il loro modo di vivere il teatro non concepisce l’ambiguo, vuole tenere lontano realtà e rappresentazione, invece di farli scontrare come i cani con i gatti (sì, lo so, mi contraddico. Prima ho detto che le due cose non vanno mischiate, ora dico che devono combattere. Che volete farci, le contraddizioni le vedete solo voi raziocinanti, quindi interpretate voi e distillate ciò che ritenete migliore, umani). Il mestierante legge un testo senza comprenderne le estreme conseguenze, lui non esiste, al massimo resiste. Per questo il grande attore cerca l’essere, è l’essere che ti fa piangere, ridere e abbaiare davvero e non solo superficialmente. Quando cogli l’essere non hai bisogno di urlare, non hai bisogno di fare il pagliaccio per attirare l’attenzione del pubblico. Puoi anche stare seduto su una sedia e parlare, sussurrando.


Ma quindi scusi, il teatro dovrebbe essere solo dei grandi attori? Dovrebbe essere solo un teatro impegnato? A chi parlerebbe un teatro così?

E a chi parla il teatro adesso? Un teatro senza grandi attori è l’eterna replica dello stesso spettacolo. Potremmo anche mettere in scena un solo testo per cento anni, ma se ogni sera lo interpretasse un grande attore diverso non sarebbe mai lo stesso [si alza e si scuote vistosamente, alzando una nube di peli lunghi come capelli]. Perché dobbiamo accontentarci? Chi ne giova? Si dice sempre che il teatro sta perdendo d’importanza, sta perdendo di profondità, eppure siamo ben contenti di vedere le sale piene per la quindicesima replica di una schifezza qualsiasi. Forse il teatro deve tornare a giocare nel fango per trovare se stesso.

Anche lei però vive senza grandi pretese, dormendo gran parte del giorno e mangiando croccantini.

Io non sono un grande attore.

Le posso chiedere la sua funzione all’interno dello spettacolo?

Esisto. Io esisto e basta.

 

A cura di Giuseppe Di Lorenzo

 

Per approfondire
Teatro, istruzioni per l’uso di Francesco Brusa http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/5/baci-dalla-provincia/451/teatro-istruzioni-per-luso-larte-di-pascal-rambert.html
Rambert e la critica al teatro contemporaneo di Ilaria Mazzarri http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/5/baci-dalla-provincia/459/rambert-e-la-critica-al-teatro-contemporaneo.html

INTERVISTA A MASSIMO GRIGÒ

Abbiamo incontrato al Teatro Manzoni di Pistoia Massimo Grigò, interprete del personaggio di Atto Melani ne La ferita della bellezza di Luca Scarlini, regia di Giovanni Guerrieri.

Foto di Michelle Davis

Il testo di Luca Scarlini trasforma in drammaturgia un frammento della storia di Pistoia…

Luca Scarlini si era già occupato del tema dei castrati in un romanzo dal titolo Lustrini per il regno dei cieli, che racconta di questa pratica e di come fosse diffusa in tutta Italia, non solo a Pistoia, ritenuta da alcuni la “maggior fucina”. Siamo nel periodo della Controriforma, durante il quale la Chiesa faceva auto-promozione con tutti i mezzi artistici di cui disponeva: la pittura, la scultura, ma anche le famose messe cantate. La Chiesa era il committente principale e i castrati nascevano per cantare nei riti religiosi. Questi godevano di un’estensione vocale impressionante e avendo la cassa toracica di un adulto, con le corde di un ragazzo, la loro potenza canora era inaudita. La parte più amara della loro esistenza consisteva però nell’impossibilità di scegliere: una volta castrati, infatti, non avrebbero potuto fare altro che cantare, e non tutti hanno avuto il successo di Atto – la maggior parte finiva per cantare in un paesino di montagna. Erano scelti da piccoli, poi strappati alla famiglia ed educati nelle accademie ecclesiastiche dove imparavano la musica; non studiando altro dalla mattina alla sera arrivavano all’orecchio assoluto già a partire dai 12 anni. Un importante passo nella carriera di un castrato era la carica di maestro di cappella, come Monsignor Felice Cancellieri che ha fondato qui a Pistoia l’Accademia dei Risvegliati (con sede nell’attuale Teatro Manzoni) ed è stato maestro dei virtuosi pistoiesi, in particolare dei fratelli Melani: Iacopo, Alessandro e Atto.

Parlaci della figura di Atto: è complessa ed eterogenea. Potresti fornirci un breve quadro storico?

Atto Melani offre molti spunti di approfondimento. Basti pensare alla serie di romanzi di Rita Monaldi e Francesco Storti (da Imprimatur in avanti) che hanno sfruttato il ruolo dell’Abate come probabile spia dei Medici. Poiché Atto, interpretato da me, lavorava come cantante alla corte di Luigi XIV, si narra che facesse l’informatore (forse doppiogiochista) per Firenze. Uno studio più storico e documentato è quello dell’anglosassone Roger Freitas, appassionato di opera lirica che nel 2009 ha scritto una monografia su Atto (Portrait of a Castrato: Politics, Patronage, and Music in the Life of Atto Melani). Sappiamo che era figlio del campanaro del Duomo di Pistoia, aveva sette fratelli, sei dei quali castrati. Lui, Jacopo e Alessandro furono i più celebri. A trent’anni Atto divenne protetto della famiglia Medici, i quali, come omaggio, lo mandarono a Parigi, dove Luigi XIV organizzava feste in suo onore e la regina gradiva ascoltarlo durante la prima colazione del mattino. Diventato gentiluomo e anche abate, quando smise di cantare iniziò la carriera del diplomatico; lo hanno definito spia, ma lui in realtà era una sorta di ambasciatore. Alla corte di Francia però non fu apprezzata la sua decisione di abbandonare la musica, né tanto meno l’ambizione di far parte del mondo nobiliare, nel quale entrò a fatica. Cadde in disgrazia con la sconfitta di Foquet nella successione di Mazzarino e fu esiliato a Roma, dove continuò a fare il gentiluomo investendo in proprietà e muovendosi all’ombra dei potenti.

Quanto è stato importante per te conoscere il contesto storico in cui è vissuto il personaggio che interpreti?

Bisogna fare uno studio approfondito, cercando di conoscere tutto quello che c’è da sapere per poter dar vita al personaggio, così se il regista mi dà una suggestione, essendo preparato, sono in grado di rielaborarla con più consapevolezza. Questa è la mia filosofia. Io non sono l’autore e nemmeno il regista, l’attore deve comunque seguire i loro suggerimenti e la lettura che fanno del testo. Io ho voluto approfondire il passato di Atto, scoprendo chi era suo padre, che da piccolo era povero e abitava in una fattoria, com’era la Pistoia del 1610-1620. Può capitare di avere un’idea che non corrisponde a quella del regista, ma è più facile trovare un punto di incontro se si padroneggia l’argomento trattato. Ci sono anche degli attori che portano avanti la propria idea, che entrano in contrasto con la visione registica, a me non è mai successo, io ho sempre incontrato registi carismatici.

Vuoi dirci qualcosa sulla tua formazione teatrale?

Ho iniziato alla Bottega di Gassman a Firenze; lui aveva il suo stile indimenticabile, che oggi sarebbe anacronistico da riproporre, ma per me è stata un’esperienza formativa importante. Un’attrice che ho incontrato e con cui ho lavorato per tre anni, altro caposaldo della mia formazione, è stata la ‘ronconiana’ Marisa Fabbri. Parliamo degli anni Settanta, quando lei aveva la mia età attuale e insegnava in Accademia a Roma. Siamo stati colleghi ma nonostante la sua grandezza non si è mai posta con superiorità nei miei confronti. Ho ‘rubato’ tanto da lei, diceva che «il teatro è sempre in divenire» perché specchio della società, quindi il tipo di recitazione deve stare al passo coi tempi, in metamorfosi continua. L’attenzione ai giovani è fondamentale, non si può parlare solo di sé, cosa che succede a molti attori; l’atteggiamento giusto è: «io mi propongo e cerco di migliorare e cambiare». Diffido sempre da coloro che hanno certezze.

Da dove è nata l’idea di mettere in scena proprio la storia di Atto Melani?

È nata da me. Quando hanno annunciato che Pistoia sarebbe stata Capitale Italiana della Cultura 2017 mi sono informato sulle eccellenze pistoiesi. Ne sono saltate subito due agli occhi: la storia dei fratelli Melani, virtuosi, e l’UFIP, azienda pistoiese famosa in tutto il mondo per la produzione di piatti per batterie. D’accordo con Annibale Pavoni, attore con cui collaboro da una decina d’anni – una di quelle amicizie che trovi in teatro e rimangono per tutta la vita – abbiamo presentato il progetto a Rodolfo Sacchettini, presidente dell’ATP. Lui ha approvato l’idea di uno spettacolo che parlasse della famiglia Melani e ha scelto Luca Scarlini come autore, perché aveva già trattato l’argomento, e Giovanni Guerrieri come regista.

Siamo curiosi di sapere quale dei tanti aspetti della vita di Atto emergono dallo spettacolo.

Luca Scarlini ha immaginato il rapporto tra Atto e l’unico fratello non evirato, Giacinto, scelto dal padre per portare avanti il nome della famiglia e soprattutto amministrarla. I proventi del lavoro dei tre fratelli più celebri (tra cui Atto) permise alla famiglia di acquistare alcune ville a Pistoia, lasciando quindi una ricca eredità ai nipoti. Il rapporto tra i fratelli, che non si erano mai parlati, è l’intreccio del racconto. C’è una notevole distanza tra i due: Giacinto è rimasto a Pistoia tutta la vita e ha una mente molto chiusa, l’altro ha viaggiato e ha ambizioni aristocratiche. C’è anche un terzo personaggio che fa da tramite col pubblico: ma ve lo presenta il collega Maurizio Rippa che lo interpreta.

Interviene il contraltista e attore Maurizio Rippa

Il mio non è un vero personaggio, è più un gioco metateatrale; semplificando potremmo definirlo un narratore. È un provocatore che commenta e fornisce i riferimenti storici e le informazioni necessarie per comprendere meglio i ruoli della vicenda. Io non sono presente nella storia ma solo scenicamente: un gioco registico nel quale i personaggi non mi vedono, gli attori sì. Avendo studiato prevalentemente musica barocca, sono stato scelto per dare voce alle parti cantate con l’accompagnamento di Manuel Gelli al clavicembalo.

Giulia Bravi

(con la collaborazione di Glenda Giacomelli e Francesca Monfardini)

“A FURY TALE”: C’ERA UNA VOLTA LA RABBIA

Per raccontare una “storia di rabbia” forse è necessario confondere la realtà con il teatro, portare in scena situazioni ironiche e a volte paradossali, esprimersi non solo attraverso la danza ma anche con un linguaggio che unisce il corpo alle parole. Il progetto di Cristiana Morganti in A fury tale (visto il 21 giugno al Teatro Manzoni di Pistoia in occasione del Pistoia Teatro Festival) è proprio raccontare una storia di rabbia e di rivalità, osservate da diversi punti di vista e in diversi contesti, confondendo sin dall’inizio la realtà con la finzione e interpretando con ironia ogni gesto, ogni scena, facendo ridere il pubblico per l’assurdità di certe situazioni ma allo stesso tempo spingendolo ad ammettere la naturalezza di quei paradossi.

Le interpreti sono due – pelle chiara, capelli rossi come la rabbia, longilinee: Breanna O’Mara e Anna Wehsarg; la coreografa decide di presentarle insieme a una terza danzatrice che avrebbe sostituito la Wehsarg durante la sua gravidanza, ma all’improvviso le quattro cadono a terra, la scena si fa buia, una musica assordante la invade, lo sfondo bianco si tinge come d’inchiostro scuro. Da quel momento inizia la storia delle due ballerine, in forte rivalità l’una con l’altra – entrambe hanno i propri sogni, progetti molto ambiziosi per il futuro: la più giovane, facendo intervenire uno spettatore che le porge una lavagnetta ed un gesso per poter spiegare con qualche segno confuso le proprie aspirazioni, sogna di aprire una scuola di danza e di avere una splendida famiglia; l’altra, aiutata da uno schema ordinato proiettato sullo sfondo della scena, spera in una buona carriera artistica, in una famiglia e nella salute, strettamente legata alla danza e allo yoga che costituiscono il primo punto trattato. Dallo scontro scaturisce la rabbia, espressa in tutte le sue forme e nei contesti più disparati, con diversi stili di danza accompagnati da musiche rock come da Bach, arricchiti di tanto in tanto da qualche frase in italiano, inglese, francese o tedesco. Le occasioni per confondere realtà e teatro sono molte, dal momento in cui la regista prende la parola per tradurre ciò che dicono le interpreti a quello in cui decide di salire sul palco per calmare la profonda crisi di rabbia e scoraggiamento di una delle due.

La narrazione si conclude riprendendo la scena iniziale: le due danzatrici, rialzatesi da terra, iniziano a ballare ma l’errore di una provoca la rabbia dell’altra, che la corregge, e pian piano il diverbio diventa furia. Nel finale, però, il dialogo tra le due è muto ed il loro scontro non è più una scena quotidiana, ma una pura azione coreografica.

Foto di Claudia Kempf

La scenografia spoglia si arricchisce via via di oggetti portati in scena dalle ballerine e da immagini proiettate sullo sfondo – animali dai colori innaturali, donne che saltano, cerchi di luce eclittici; l’illuminazione, mai banale, sfrutta anche fari posti lateralmente alla scena per illuminare da diversi punti di vista le due ragazze. Proprio le luci, in complicità con il suono, spesso sfruttando l’effetto stroboscopico, permettono di creare i momenti più espressivi e ironici: in una luce rossa che pervade tutto il palco, sulla base di un brano di musica metal, ad esempio, la O’Mara sfoga la propria furia coi capelli al vento di un asciugacapelli elettrico.

La varietà dei costumi permette non solo di scandire i diversi momenti del racconto, ma anche di accentuare l’assenza di separazione tra realtà e finzione, con cambi in scena al ritmo della musica, con precisi movimenti coreografici.

L’indagine condotta dalla Morganti è fortemente contestualizzata, ma allo stesso tempo esprime la realtà di chiunque voglia riconoscervisi, e la sua attenzione alle due facce dello spettacolo – l’interno e l’esterno – permette un’analisi più attenta e ironica, «un tentativo di mettersi in gioco per preservare attimi di verità». “Mettersi in gioco” è allo stesso tempo “prendersi gioco”: di loro stesse, con autoironia, grazie all’azione iniziale di gettarsi a terra ed interrompere repentinamente quella presentazione che, probabilmente, al pubblico non interessa nemmeno; ma anche del pubblico, incredulo ogni volta che scopre che la realtà che sta vivendo è, di fatto, spettacolo.

Se è difficile parlare di rabbia – qualcosa di così astratto e generico – in uno spettacolo teatrale, la Morganti ci riesce e nella maniera più efficace: rendendo il pubblico partecipe di questo gioco che non esclude nessuno.

Lapo Ferri

Ritratto in piedi. Intervista a Renata Palminiello

 

In occasione della prima edizione del Pistoia Teatro Festival Renata Palminiello ha dato voce e corpo al romanzo “Ritratto in piedi” di Gianna Manzini. L’abbiamo incontrata al tavolino di un bar di fronte al Teatro Manzoni. A cura di Edoardo Altamura (la foto quissopra è di Michelle Davis)

IL FREGIO ROBBIANO: L’OPERA CHE HA ISPIRATO VIRGILIO SIENI

Il Pistoia Teatro Festival ospiterà stasera e domani l’azione coreografica “Fregio” di Virgilio Sieni, già proposta negli anni passati ed ispirata al Fregio Robbiano dello Spedale del Ceppo. Si potrà partecipare allo spettacolo alle 20 e alle 20:45, spostandosi tra la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo De’ Rossi. La performance, che coinvolgerà musicisti e ballerini professionisti ma anche cittadini prestatisi all’iniziativa, indaga il senso di comunità, il rapporto con l’altro, le possibilità relazionali del corpo, fondendo il passato del Fregio con la nostra contemporaneità.

Risalente ai primi anni del Cinquecento, il fregio raffigurante le sette Opere di Misericordia è stato realizzato da Santi Buglioni, allievo dei Della Robbia e depositario dei loro segreti di cui si è servito per realizzare opere con l’originale tecnica della ceramica invetriata. L’opera si pone come testimonianza evangelica, ma la sua interpretazione iconografica è assai difficile dal momento che, oltre che di citazioni bibliche, è densa anche di richiami alle confraternite dedite a mettere in pratica, a partire dal Medioevo, le sette Opere. Non a caso, infatti, il fregio si pone come rappresentazione, quasi una copertina, delle numerose attività svolte all’interno dello Spedale. Incorniciato al principio e al termine da citazioni delle Beatitudini (Matteo, V, 7-8), il fregio vede alternarsi le sette Opere di Misericordia corporale con tre Virtù Cardinali e due Virtù Teologali. La lettura delle immagini inizia dal lato sinistro del portico con Vestire gli ignudi, seguito dalla prima parte di una delle Beatitudini, «Beati mundo corde q(onia)m», conclusa sull’estremità destra della facciata dalla scritta «Ipsi Deu(m) videbunt», ossia «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Matteo, V, 8); al margine sinistro della facciata si trova, invece, la scritta «Beati miseri cordes q(onia)m» non completata sul cartiglio del lato destro che rimane bianco. Proseguendo con le scene, si trovano Alloggiare i pellegrini, la Prudenza, Assistere gli infermi, la Fede, Visitare i carcerati, la Carità, Seppellire i morti, la Speranza, Dar da mangiare agli affamati, la Giustizia e Dar da bere agli assetati.

Foto di Michelle Davis

L’alternarsi delle scene e delle immagini ad altorilievo delle Virtù, vivaci e realistiche, lascia permeare un messaggio ancora attuale di una spiritualità cristiana concreta, fondata sul buonsenso e sull’operosità. Il fregio si pone come ponte tra l’avanzata arte fiorentina, importata a Pistoia in quei secoli proprio grazie al legame politico con Firenze, e l’arte didascalica medievale, di forte utilità pratica. Figura ricorrente nelle varie scene è lo Spedalingo fiorentino Leonardo Buonafede, intento a compiere le Opere; egli è circondato da raffigurazioni delle attività dello Spedale, rappresentate anche nei dettagli più insignificanti per la narrazione evangelica ma fondamentali per gli studi storici sul Ceppo e sulle usanze mediche dell’epoca. D’altra parte, il fregio ha due piani di interpretazione: quello didascalico, di lezione di spiritualità cristiana e di condotta civile, e quello iconografico e teologico. È stato difficile per gli storici trovare un’interpretazione univoca, tanto che molti dei personaggi raffigurati non sono stati ricondotti con sicurezza a figure bibliche o evangeliche (si veda, ad esempio, il pellegrino ospitato da Buonafede nella seconda scena). Senza dubbio numerose sono le citazioni artistiche: prima tra tutte, quella del David di Michelangelo che possiamo individuare nella figura a sinistra della prima scena (Vestire gli ignudi) che, seppur priva di carica emotiva, si mostra come il risultato di un attento intervento dell’artista nella narrazione, quasi a plasmare la scena attraverso citazioni di artisti contemporanei e antichi. Il lavoro di Virgilio Sieni cerca di ripercorrere le ˝tappe˝ dell’opera, concentrandosi sul tema del sorreggere ed essere sorretti dall’altro, in una fila che richiama l’andamento orizzontale del fregio reinterpretando il corpo come mezzo per abitare il mondo consapevolmente, in relazione coi luoghi della città – in questo caso, appunto, il fregio robbiano. Evidenzia, in particolare, il rapporto di ognuno con l’altro in quanto elemento fondamentale della nostra esistenza, quasi richiamando l’ontologia del filosofo ebraico Emmanuel Lévinas per cui l’essenza dell’uomo e il suo stesso esistere sono vincolati alla relazione con l’Altro.

Foto di Michelle Davis

Il Fregio è co-protagonista del festival non soltanto nella lettura in chiave coreografica di Sieni, ma è stato ˝palcoscenico˝ nello spettacolo di apertura: Il Vangelo secondo Judah, lettura scenica di Stefano Massini, con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai.

Lapo Ferri

Testo di riferimento:

GUERRIERI F., Il Fregio robbiano dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1982.

GIORNALISTI DI CONFINE SEGUE IL LAVORO DI VIRGILIO SIENI AL PISTOIA TEATRO FESTIVAL

Giornalisti di Confine, in occasione del Pistoia Teatro Festival, raggiunge la Saletta Gramsci, situata sul lato meridionale di piazza San Francesco, per assistere alle prove dello spettacolo “Fregio” di Virgilio Sieni. Il progetto “Cantieri del Gesto_Pistoia 2017” consta di due azioni coreografiche, “Fregio” e “Cammino Popolare”.
“Fregio” è un percorso attraverso 4 azioni coreografiche in tre luoghi, orientato verso il senso della condivisione e dell’incontro, un atlante di gesti edificato da cittadini e giovani danzatori, ispirato al Fregio dello Spedale del Ceppo di Pistoia e alle sue Opere di Misericordia.

Lo spettacolo, in scena oggi 23 giugno alle ore 20.00 e 20.45 (replica), attraverserà spazi di rilevante interesse culturale quali la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo de’ Rossi.

Giornalisti di Confine ha catturato qualche frammento delle prove di questo lavoro e ha intervistato 5 cittadine e danzatrici che partecipano al progetto.

Ci vediamo stasera.
Non mancate!

La ferita della bellezza. Intervista a Giovanni Guerrieri

Siamo nella chiesetta medievale di San Michele in Cioncio a Pistoia, scenario il 22, 23 e 24 dello spettacolo La ferita della bellezza di Luca Scarlini. Il regista Giovanni Guerrieri ci parla del lavoro, che affronta la vita del noto cantante pistoiese del Seicento Atto Melani.

Giovanni Guerrieri a sx. Ph Michelle Davis

Perché avete scelto di trattare la figura del pistoiese Atto Melani e qual è il rapporto tra il testo e la città di Pistoia?

Atto Melani, il protagonista di questa pièce di Luca Scarlini, fu una “rockstar” nel Seicento, una vedette internazionale. Castrato di famiglia pistoiese, ebbe due fratelli, Jacopo e Alessandro, anch’essi musicisti, ma la sua fama non fu nemmeno paragonabile alla loro: frequentò le corti internazionali prima come cantante evirato, poi come diplomatico e anche come spia. Tra gli altri, è stato molto vicino al Re Sole e a Mazzarino e ha potuto toccar con mano gli intrighi internazionali del suo tempo. Ritornò in varie occasioni a Pistoia, dove conservò degli interessi di famiglia.
Il testo, da un’idea di Massimo Grigò, uno degli attori, è stato scritto da Luca Scarlini, che ha pensato di avvicinare due fratelli in un dialogo: Atto, ormai ex-cantante e diplomatico affermato, e Jacopo, “integro”, ossia non castrato, per volere del padre che lo scelse per dare discendenza ai Melani. Tale confronto è arricchito da un terzo personaggio, una sorta di “fantasma della musica” interpretato dall’attore e controtenore Maurizio Rippa, che ci restituisce gli echi di quel mostro sacro che fu Atto Melani quando, ormai al tramonto della sua vita, osservava un mondo artistico che stava cambiando: le donne iniziavano a occupare i palcoscenici, la natura stava prendendo il sopravvento sull’artificio.

Perché La ferita della bellezza?
È un’idea di Luca Scarlini: è l’atto innominabile della castrazione. Sembra che Pistoia, in quegli anni, fosse la maggiore esportatrice di evirati a livello italiano e non solo. L’evirazione era una pratica consolidata che permise ad alcuni di ottenere grande successo, come ad Atto Melani, che divenne miliardario. La sua fama ricadde anche sulla sua famiglia: il fratello Giacinto, rimasto a Pistoia, godé dei benefici di Atto.

Cosa vi ha fatto scegliere proprio la chiesa di San Michele in Cioncio come scenario dello spettacolo?
Realizzarlo in questa chiesa è come far ritornare Atto Melani nel cuore della città di Pistoia: avevamo bisogno di un luogo intrigante e antico.

Quale lavoro hai svolto sul testo originale di Luca Scarlini anche insieme agli interpreti?
Scarlini è molto preparato su questo argomento, ha scritto diversi testi soprattutto scientifici sulle figure dei castrati – tra cui uno edito da Bollati-Boringhieri, Lustrini per il regno dei cieli – e ci ha dato molto materiale su cui lavorare. Noi l’abbiamo dovuto smontare e rimontare per poter tirar fuori questi due caratteri che all’inizio sembrano usciti da una commedia di Molière, un Molière illuminato a lume di candela. L’equilibrio pian piano si infrange per far sbocciare il dramma dei due fratelli: il senso di colpa di quello “integro” e l’affetto che li tiene insieme.

Ph Michelle Davis

Uno spettacolo sul personaggio storico o, in generale, sulla musica e sull’arte?
Direi sul personaggio, perché il testo è stato creato intorno alla sua figura. Abbiamo con noi uno straordinario clavicembalista, Manuel Gelli, che quando ha iniziato a suonare la prima volta ci ha immediatamente trasportati nel Seicento con pochi accordi. Lui, insieme a Maurizio Rippa, offre un assaggio della musica, che di tanto in tanto fa capolino rimanendo però un fantasma sullo sfondo. È il dramma tra i due fratelli il vero principio della pièce.

Trattandosi di una figura storica importante per la nostra città, inviterebbe a questo spettacolo solo i pistoiesi o pensa possa essere significativo per tutti?
Vista la bellezza della chiesa e l’allestimento penso sia uno spettacolo per tutti. La trama è scorrevole e gli ambienti e le atmosfere emotive sono particolarmente avvolgenti: per questi motivi non è uno spettacolo per operatori, ma per il pubblico. Certamente i riferimenti alla propria città, a luoghi che conoscono bene, sono colti in particolare dagli spettatori pistoiesi sollecitati nella dimensione affettiva.

 

Lapo Ferri

Giornalisti di Confine segue il lavoro di Virgilio Sieni al Pistoia Teatro Festival

Giornalisti di Confine, in occasione del Pistoia Teatro Festival, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro raggiunge la Saletta Gramsci, situata sul lato meridionale di piazza San Francesco, per assistere alle prove dello spettacolo “Fregio” di Virgilio Sieni. Il progetto “Cantieri del Gesto_Pistoia 2017″ consta di due azioni coreografiche, “Fregio” e “Cammino popolare”. “Fregio” è un percorso attraverso 4 azioni coreografiche in tre luoghi, orientato verso il senso della condivisione e dell’incontro, un atlante di gesti edificato da cittadini e giovani danzatori e ispirato al Fregio dello Spedale del Ceppo di Pistoia e alle sue Opere di Misericordia.

Lo spettacolo, in scena oggi 23 giugno alle ore 20.00 e 20.45 (replica), attraverserà spazi di rilevante interesse culturale quali la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo de’ Rossi.

Giornalisti di Confine ha catturato qualche frammento delle prove di questo lavoro.

A cura di Matilde Navicelli, Giulia Trovato e Rebecca Giusti, con Edoardo Altamura.

«Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne». Massini al Pistoia Teatro Festival

Nella tradizione ebraica la carne deve seguire le antiche regole stabilite nella Torah, le quali vengono trattate in particolare nel Pentateuco. Questa tecnica è detta kasherùt. Nella tradizione kasherùt, per esempio, non è possibile mangiare della carne bevendo del latte o cucinarla nel latte, nel Deuteronomio è infatti presente il precetto «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre». Ma probabilmente il più celebre tra tutti questi precetti ormai millenari, oggi ancora seguiti pedissequamente dalle comunità ebraiche in tutto il mondo, è legato all’uso del sangue. «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue», Genesi 9,4 e in pratica il precetto fondamentale nella macelleria kasherùt. L’animale, secondo le scritture, va ucciso con un colpo netto tramite una lama peculiare, e il sangue travasato fuori dal suo corpo va lasciato scorrere fino al totale dissanguamento. Per morire gli animali kasherùt vengono dunque dissanguati, qualsiasi altra tecnica ne inficerebbe la purezza. Persino il taglio dev’essere preciso, altrimenti non è kasherùt, e ancor prima il macellaio deve proferire una berakhah, una benedizione, altrimenti non è kasherùt e quindi non può essere consumato. Non è un caso se una delle criticità del discorso cristiano presente nel Nuovo Testamento per gli ebrei è quel Verbo si che si è fatto carne. La carne è una questione molto importante per gli ebrei, e ha a che fare con l’innocenza degli intenti e quindi dell’anima.
«Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne» è Stefano Massini che attacca la contemporanea grafomania social durante un incontro con Goffredo Fofi, moderato da Roberto Sacchettini, nella ricca cornice del Pistoia Teatro Festival (incontro organizzato domenica 18 giugno alle 18.00). A poche ore dalla prima in assoluto del suo nuovo testo, Il Vangelo secondo Judah, nella mise en espace di Claudia Sorace con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai, Massini lancia nel flusso della conversazione questa interessante constatazione, che diventa ancora più significativa alla luce delle sue influenze ebraiche. Nell’incontro infatti il drammaturgo ci ha raccontato come è venuto in contatto con l’ebraismo e come questi lo abbia condizionato in tenera età. Entrambi i genitori di Massini lavoravano nell’ambiente medico, nessuno dei due aveva una particolare propensione per il mondo dell’arte, a parte la l’interesse del padre verso il cinema, e di certo nessuno dei due era ebreo ma bensì di estrazione cattolica. Da bambino Massini venne a sapere che suo padre mentre lavorava aveva salvato la vita di un suo collega: Renzo Servi, uno degli anziani della comunità ebraica fiorentina. Anche in questo caso entra in gioco la Torah, dato che secondo le scritture se un non-ebreo salva un ebreo allora a lui e alla sua famiglia dovranno essere aperte le porte della comunità, e così fu. La mattina Massini la passava come tutti i bambini della sua età a scuola, tra un’analisi logica e un po’ di algebra, ma il pomeriggio lo trascorreva interamente al tempio della comunità fiorentina, dove le lezioni erano in inglese per il grande numero di americani presenti nella comunità, dove c’era un’enorme biblioteca a sua totale disposizione, e non secondariamente dove era presente al suo interno un piccolo teatro. Gli unici attori potevano essere, sempre secondo tradizione, gli anziani della comunità, e si potevano mettere in scena soltanto spettacoli della tradizione ebraica fiorentina. Nella biblioteca Massini ha imparato e assimilato fino a che punto la parola sia fondamentale per gli ebrei, tanto da arrivare a definire il rapporto tra ebraismo e letteratura come simbiotico. Fu proprio il rabbino del tempio a regalargli come premio di maturità il suo primo abbonamento a teatro, un gesto piuttosto significativo alla luce della sua finora peculiare carriera. Con un percorso di studi piuttosto serrato e dopo una laurea in egittologia, Massini esplorerà il mondo del teatro in modo più continuativo, con i risultati che sappiamo.

«Ho studiato tanti autori, ma per me l’ebraismo è tutto». È il creatore de Il Vangelo secondo Judah che risponde a Fofi, il quale aveva appena finito il suo intervento iniziale elencando dei possibili maestri nei confronti di Massini. Dopo aver brevemente citato Freud come esempio di «scrittura drammaturgica» arriva l’attacco di cui prima, quello contro la mania di scrivere contemporanea, una stoccata contro l’abuso di ciò che quegli anni nel tempio gli hanno insegnato essere la cosa più importante e sacra: la parola. «Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne». Il discorso analizzato attraverso una prospettiva cristiana è piuttosto chiaro e lineare: si scrive con superficialità, con leggerezza, senza dover per forza veicolare qualcosa nel nostro messaggio, ma anzi svilendo la forza della parola. Ma guardandola dalla prospettiva kasherùt l’affermazione di Massini acquisisce un ulteriore significato. Manca la purezza prima del taglio, non c’è la berakhah del macellaio, non vi è insomma il processo necessario perché la parola si faccia effettivamente carne. I lavori di Massini sono caratterizzati da una densità di concetti che brulicano numerosi sotto la sottile coperta della carta, infervorati come tori durante la corrida, pronti a deflagrare nell’interpretazione dell’attore. Per questo Massini ha anche affermato sbrigativamente che per lui non è più concepibile la differenza in generi, anche perché la parola perde un potenziale di significati talmente ampio che è mortificante costringerla nei binari del genere. Definire l’opera di Massini è difficile, persino Goffredo Fofi fa fatica a categorizzare il suo talento, prima afferma che «non vedo padri per Massini», per poi rendersi conto dell’immensità di tale sentenza e quasi a correggersi ne cita ben tre: Brecht, Bernhard e Ibsen. Dal canto suo Massini cita come esempi per il suo teatro: Ronconi, Castri, De Berardinis e Costa. Di questi quattro solo di uno ricorda un suo spettacolo, una trilogia curiosamente, l’unica citato in tutto l’incontro a parte la Lehman Trilogy, ovvero la Trilogia della villeggiatura nella messa in scena di Massimo Castri. Un incontro interessante questo tra l’ascesa e la caduta dei Lehman, banchieri dal successo che pareva incrollabile poi demolito con indifferenza dalla grande crisi del 2008, e quello invece delle vicende amorose di Giacinta e le sue smanie, le sue avventure e quel terribile ritorno dalla villeggiatura. Anche quella di Giacinta e dei suoi comprimari è una parabola discendente, che presenta tutte le caratteristiche della disfatta. Nella messa in scena di Castri gli elementi già contemporanei di Goldoni vengono amplificati da alcune invenzioni che ne aumentano esponenzialmente il dialogo con la società italiana degli anni ’90, anticipando di fatto gli effetti su di essa dopo la crisi. Quella finta e di comodo solidità del tessuto medio-borghese è andata in frantumi nel Ritorno come nella realtà. È vero che Massini sostiene il primato della parola, e lo dice senza tergiversarci su, ma se nel parlare della trilogia ha fatto riferimento a Castri e non a Goldoni e proprio perché riconosce nel lavoro del regista nato a Cortona un lavoro anche di scrittura. «Non consegno un testo ai registi ma del materiale scenico». Questo lo afferma proprio perché quel “materiale scenico” è composto da tutti gli elementi che servono perché il testo diventi fecondo, perché la carne sia purificata, in quelle pagine così piene c’è la benedizione e il coltello. Massini ha citato quella trilogia perché sa bene che Castri rendeva ogni elemento della sua mise-en-scène diegetico, dalle straordinarie scenografie curate da Maurizio Balò (non a caso entrambi premi Ubu nel ’97 proprio per la Trilogia) fino ai rumori, tavolta quasi impercettibili ma che donavano il contesto per cui le parole si colmavano di significati, «Noi comunichiamo solo quando la parola è unita al suo contesto.» Questo non l’ha detto Castri, ma Massini, riflettendo sulla contemporanea afasia che deriva, secondo lui, da un contesto esanime, quasi descrivendo i social come un giardino abbandonato che, anziché armonizzarsi con l’ambiente per creare un’atmosfera piacevole e fertile è pieno d’edera e marcisce. Nel dare una estemporanea definizione di teatro il regista di San Donnino dice «Forma straordinaria di compromesso: traduzione delle parole in corpi». Secondo il più citato di tutti i testi sul teatro, la Poetica di Aristotele, c’è teatro quando c’è azione, o per meglio dire «chi imita, imita persone in azione». Massini fa un ulteriore passo indietro, si reinventa shocḥet, ovvero il macellaio di carne kasherùt, benedice l’animale, brandisce la lama con fermezza a colpisce con una precisione profetica. Il suo è un lavoro che anticipa l’azione e gli fornisce l’humus per fiorire in tutte le sue tonalità. La parola infine si fa carne.

 

Giuseppe Di Lorenzo

Giornalisti di Confine segue il lavoro di Kepler-452 al Pistoia Teatro Festival

Giornalisti di Confine, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro, raggiunge la Fortezza Santa Barbara in occasione del Pistoia Teatro Festival per assistere alle prove dello spettacolo “La rivoluzione è facile se sai come farla” della compagnia Kepler-452, con le musiche de Lo Stato Sociale.

Ciao, siamo Lucrezia e Aurora. Abbiamo avuto la grande opportunità di incontrare e intervistare la compagnia Kepler-452, in particolare Enrico Baraldi, Alberto “Bebo” Guidetti dello Stato Sociale, e il regista dello spettacolo Nicola Borghesi. L’incontro è avvenuto nella maestosa Fortezza di Santa Barbara a Pistoia, dove la sera stessa (20 giugno) è andato in scena il loro spettacolo. Eravamo entrambe abbastanza agitate ed emozionate all’idea di intervistare per la prima volta qualcuno, ma tutto ciò si è poi rivelato molto più semplice di quello che pensavamo. Abbiamo conosciuto persone giovani, semplici, sincere e simpatiche. Ci hanno messo molto a nostro agio, anche durante le piccole interviste individuali, che si sono rivelate divertenti e interessanti. Siamo rimaste molto colpite dall’intreccio di pezzi musicali e recitazione, e anche dalla capacità, sia degli attori che della musica, di legarsi insieme, risultando sempre chiari e coesi. Questa esperienza non ha deluso le nostre aspettative e che ci ha dato la possibilità di guardare lo spettacolo con occhi diversi.
A cura di Aurora Bellucci e Lucrezia Zanini, con Lorenzo Donati.