Un cadavere coperto da un telo, sul tavolo al centro di una sala di anatomia, prende vita e comincia a raccontare la sua storia: così ha inizio La signorina Else, monologo di Schnitzler per la regia di Federico Tiezzi, presentato in anteprima al Pistoia Teatro Festival. Le luci illuminano a giorno l’antico Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo, creando un’atmosfera sospesa nel tempo; i pochi spettatori – la sala ha una capienza massima di 25 persone – hanno compreso già entrando di stare per assistere ad un evento irripetibile, in perfetto connubio con la location scelta. Sfruttare il Genius loci, cioè interagire con l’insieme delle caratteristiche connaturate ad un particolare ambiente anziché ricostruire una scenografia, è stata una delle cifre costanti del Festival; una scelta coerente quanto rischiosa che nel caso de La signorina Else oltrepassa i confini della funzione drammaturgica, arrivando a immergere lo spettatore nell’orizzonte claustrofobico della protagonista.
Nonostante l’indubbio valore estetico (l’architettura settecentesca, i motivi ornamentali che decorano il soffitto e le pareti, i bassorilievi) la Sala Anatomica rimane un luogo congegnato tra il 1770 e il 1780 perché pochi studenti, guidati da un insegnante, assistessero alla dissezione di un cadavere. Questa consapevolezza restituisce un duplice effetto: da un lato un soffocante senso di oppressione, amplificato dal calore delle luci proiettate attraverso i vetri, quasi che il tutto si svolgesse sotto una gigantesca lente di ingrandimento; dall’altro la freddezza clinica (e cinica) con cui uno scienziato si rapporta ad una cavia da laboratorio. Le musiche barocche, in stridente contrasto con il dramma, sono eseguite nell’anticamera sopra un “giardino” di erba sintetica – nella finzione il giardino dove la piccola Else usciva a giocare – da un’orchestrina di tre elementi: Dagmar Bathmann al violoncello, Omar Cecchi al pianoforte e alle percussioni, Dusan Mamula ai clarinetti. L’ambientazione spoglia di tipo “ospedaliero” non è nuova alla regia di Federico Tiezzi: memorabile la sua Antigone del 2004, in cui la scenografia ricostruiva un obitorio. Antigone e gli altri personaggi erano – come Else – morti che si rialzano dal velo che li copre, tornando in vita il tempo necessario a raccontare la loro storia.
Il dramma ha inizio quando la diciannovenne Else, in vacanza a San Martino di Castrozza, riceve una lettera dalla madre, venendo a sapere che il padre, coinvolto in un caso di corruzione, rischia la galera. L’unica che può salvarlo, scrive la madre, è proprio Else, cercando l’aiuto di Von Dorsday – amico benestante della famiglia, per coincidenza ospite del suo stesso albergo – con l’impegno di blandirlo ad ogni costo. Else viene dunque spinta dai genitori a prostituirsi per la loro convenienza, minando alla radice la sua fiducia – e quella dello spettatore – nel nucleo più intimo, quello familiare.
Ph. Luca Manfrini
La regia di Tiezzi, più che per la resa visiva (tra le invenzioni più riuscite, una casa di bambole che riproduce in scala il luogo in cui si svolge l’azione) brilla per la profondità psicologica e per la fedeltà al monologo interiore di Schnitzler, dove Else è sì fragile, ma anche civetta ed esibizionista. L’indifferenza con cui la famiglia la offre “in pegno” a Von Dorsday non distrugge l’innocenza di una bambina, ma la spontanea curiosità di una ragazza in preda ai primi turbamenti sessuali. Else in un primo momento pensa di potersi effettivamente sacrificare per il padre, cerca di mettersi alla prova e capire fin dove si può spingere, quanto può offrire, mentre precipita nella crisi che la conduce al suicidio.
Non è solo lo stato d’animo della protagonista, ma l’ipocrisia di un’intera società a subire un procedimento di dissezione nell’opera di Schnitzler. I valori sono solo maschere, pura apparenza sotto la quale trionfa il cinismo. Non a caso nella novella originale è il Carnaval di Schumann (letteralmente carnevale, o ballo in maschera) ad essere eseguito dall’orchestra nella sala da concerto dove Else si lascia infine svenire, dopo aver assunto i barbiturici. Tiezzi riprende il tema del mascheramento facendo indossare ai personaggi secondari del dramma (medici e inservienti) inquietanti maschere animali. Lo stesso Von Dorsday entra in scena con una testa di coccodrillo, ma in questo caso la funzione è ribaltata: quello del crudele predatore è il suo vero volto, mentre la maschera è quella del borghese temperato.
Ma a dare vera sostanza allo spettacolo è soprattutto la prova attoriale dei protagonisti, Lucrezia Guidone (Else) e Martino D’Amico (Von Dorsday), che riescono a restare sul filo della quarta parete pur rimanendo ad una manciata di centimetri dagli spettatori. Ad una distanza così ridotta non si possono fingere le lacrime, il sudore, il senso di angoscia che la performance della Guidone – non priva di momenti di disturbante erotismo – riesce a restituire. Circondata dagli spettatori, sezionata dai loro sguardi, ricambia talvolta fissandoli a lungo, come per chiamarli in causa. Il conflitto interiore è messo a nudo, offerto senza pudore agli spettatori come in un kammerspiel senza filtri, dove la prossimità all’azione drammaturgica si fa a tratti eccessiva: alcuni reagiscono in effetti con un certo imbarazzo, come se Else, accettando l’infame proposta di Von Dorsday, potesse finire per denudarsi davvero di fronte a loro.
Alfredo Marasti
(visto il 16 giugno 2017)