Monthly Archives: July 2017

La signorina Else – Intervista a Lucrezia Guidone

In occasione della prima edizione del Pistoia Teatro Festival la redazione del laboratorio Giornalisti di Confine ha intervistato Lucrezia Guidone, in programma con La signorina Else di Federico Tiezzi, tratto dall’omonimo racconto di Arthur Schnitzler.
A cura di Edoardo Altamura.

LA SIGNORINA ELSE
di Arthur Schnitzler
traduzione di Sandro Lombardi
drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
regia di Federico Tiezzi
con Lucrezia Guidone e Martino D’Amico
Dagmar Bathmann violoncello
Omar Cecchi pianoforte e percussioni
Dusan Mamula clarinetti

scena Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Giorgio Rossi
assistente alla regia Giovanni Scandella
in collaborazione con Scuola di Musica e Danza “Teodulo Mabellini”, Pistoia

produzione Compagnia Lombardi – Tiezzi / Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Regione Toscana e Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Gli indiani di Ascanio Celestini

ph Michelle Davis

Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo è uno studio di Ascanio Celestini visto al Pistoia Teatro Festival per la seconda parte di una visione tripartita: Laika, Pueblo e I Draghi. Questi i tre titoli che comporranno la trilogia, tre scorci sugli esclusi, dei quali «normalmente parliamo solo quando succede qualcosa di grave […] è come se non vivessero neanche nella Storia degli Uomini», come ci racconta lo stesso autore da noi intervistato. Il palco montato all’interno della Fortezza Santa Barbara di Pistoia è occupato da due sedie e da due tavoli: da quello di sinistra escono note, da quello di destra parole; le parole degli e sugli esclusi, gli alienati dalla Città moderna, i relegati nella periferia urbana e in quella sociale. Il tutto immerso in una densa caligine opprimente, che, soffocando la distanza emotiva fra noi e loro, ci collega al moto patetico di queste storie verosimili del presente ostracizzante.

Il filo rosso dello spettacolo è il luogo, la compresenza spaziale dei narrati ci consegna l’eterogeneo corpus di queste emozionali vite trascorse sul confine fra “il limite del buongusto” e “la verità del presente che non dà scampo”. Violetta, Domenica, Said, un padre e uno zingaro sono i personaggi che prendono vita grazie alle incisive musiche di Gianluca Casadei e alla commovente eloquenza di Ascanio Celestini. La gentilezza nel lavoro attoriale è toccante, i pochi gesti del narrante si stagliano immensi nella visione spettatoriale, la dizione marcata e geograficamente flessa ci consegna un atmosfera totalizzante e il tutto ci fa letteralmente respirare i luoghi e le sensazioni dei raccontati.

Violetta lavora come cassiera in un grande magazzino, porta avanti la sua mansione con cruenta gentilezza e profondo rispetto per sé e gli altri: è una regina quando inforca il trono di fronte al nastro, quando i sudditi le consegnano la merce che lei, generosamente, struscia e concede… il latte, il pane, gli insaccati, i soldi sono solo doni che le vengono porti e che lei elargisce regalmente accompagnandoli con «grazie, arrivederci». Ma fuori dall’ambiente protetto, dal crogiuolo di anime che si delineerà con il prosieguo del testo, la sua vita è monca, priva di legami se non quello con il padre defunto e quello con Domenica. Una donna che proprio in quel grande magazzino aveva trovato rifugio; la sua America è stato il gabbiotto della guardia notturna, nel quale, in seguito ad una vita segnata dall’iniziazione paterna al borseggio e continuata con angherie, silenzi e solitudine, la giovane ragazza rom aveva trovato una sorta di quiete, la sua sorta di quiete o comunque una prospettiva accettabile.

Domenica inizia a svolgere piccoli lavoretti per il grande magazzino, quasi come per guadagnarsi quel posto riparato e quella merce in scadenza con la quale riesce a sostentarsi senza chiedere l’elemosina. Il suo piccolo angolo di Mondo lo aveva trovato e, in un certo senso, lo guadagnava ogni giorno, lo sudava. Con questi piccoli gesti di generosità di chi le sta intorno si era ripresa una sua dignità, un rispetto verso sé stessa. Attraverso di lei si intrecciano altri due rapporti e altrettanti personaggi: Said, lavorante come facchino nel magazzino dello stesso locale, e lo Zingaro. Con il primo ha una relazione amorosa e il loro rapporto si erge sulla bellezza delle piccole cose, dei piccoli traguardi – anche se mai raggiunti – e dell’eterno aspettarsi anche dopo l’espulsione di lui; con il secondo il rimando è al passato, alla propria giovinezza, all’apprendimento “dell’arte” e ai primi furti.

Con questi ultimi si tesse in modo analessico l’ultimo personaggio, il padre che infine chiuderà la visione circolarmente tornando su Domenica; l’uomo, ormai non più genitore racconta la storia del suo, purtroppo fu, figlio affetto da una malattia degenerativa che lo ha portato alla morte. «Il mio piccolo cuore di cane» dice il padre raccontando di quando il figlio, mangiando le more selvatiche, si cospargeva di un liquido dal color sanguigno. Nella mente dello spettatore qui si apre la questione di Poligraf Poligrafovič Pallinov, il personaggio praticamente teriomorfo del romanzo di Bulgakov: il suo essere borderline, specchio orribile di una società che, professando alti valori, si fa, in realtà, carnefice di sé stessa.

ph Michelle Davis

La chiusura del testo si apre con lo sguardo dell’uomo che giunge al marciapiede su cui giace l’anziana Domenica morta, dopo aver bevuto il tanto amato cappuccino decaffeinato, e sul quale si affaccia la porta di un bar sul cui ciglio sta il ragazzo rom che scherniva il figlio perché paraplegico. Alla fine si arriva in Paradiso: un luogo di tutti e per tutti.

Il testo potrebbe essere un elogio al rispetto verso se stessi e la tensione di fondo, che mi ha profondamente colpito e commosso, penso sia la ricerca non della felicità bensì dell’amore e del rispetto per sè e per gli altri – tema non innovativo, ma certamente da riproporre in una società che progredisce rapidamente verso traguardi inimmaginabili ma che involve forse ancora più celermente perdendo il terreno della socialità.

Edoardo Altamura

 

 

“La signorina Else”: vivisezione di un personaggio

Un cadavere coperto da un telo, sul tavolo al centro di una sala di anatomia, prende vita e comincia a raccontare la sua storia: così ha inizio La signorina Else, monologo di Schnitzler per la regia di Federico Tiezzi, presentato in anteprima al Pistoia Teatro Festival. Le luci illuminano a giorno l’antico Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo, creando un’atmosfera sospesa nel tempo; i pochi spettatori – la sala ha una capienza massima di 25 persone – hanno compreso già entrando di stare per assistere ad un evento irripetibile, in perfetto connubio con la location scelta. Sfruttare il Genius loci, cioè interagire con l’insieme delle caratteristiche connaturate ad un particolare ambiente anziché ricostruire una scenografia, è stata una delle cifre costanti del Festival; una scelta coerente quanto rischiosa che nel caso de La signorina Else oltrepassa i confini della funzione drammaturgica, arrivando a immergere lo spettatore nell’orizzonte claustrofobico della protagonista.
Nonostante l’indubbio valore estetico (l’architettura settecentesca, i motivi ornamentali che decorano il soffitto e le pareti, i bassorilievi) la Sala Anatomica rimane un luogo congegnato tra il 1770 e il 1780 perché pochi studenti, guidati da un insegnante, assistessero alla dissezione di un cadavere. Questa consapevolezza restituisce un duplice effetto: da un lato un soffocante senso di oppressione, amplificato dal calore delle luci proiettate attraverso i vetri, quasi che il tutto si svolgesse sotto una gigantesca lente di ingrandimento; dall’altro la freddezza clinica (e cinica) con cui uno scienziato si rapporta ad una cavia da laboratorio. Le musiche barocche, in stridente contrasto con il dramma, sono eseguite
nell’anticamera sopra un “giardino” di erba sintetica – nella finzione il giardino dove la piccola Else usciva a giocare – da un’orchestrina di tre elementi: Dagmar Bathmann al violoncello, Omar Cecchi al pianoforte e alle percussioni, Dusan Mamula ai clarinetti. L’ambientazione spoglia di tipo “ospedaliero” non è nuova alla regia di Federico Tiezzi: memorabile la sua Antigone del 2004, in cui la scenografia ricostruiva un obitorio. Antigone e gli altri personaggi erano – come Else – morti che si rialzano dal velo che li copre, tornando in vita il tempo necessario a raccontare la loro storia.
Il dramma ha inizio quando la diciannovenne Else, in vacanza a San Martino di Castrozza, riceve una lettera dalla madre, venendo a sapere che il padre, coinvolto in un caso di corruzione, rischia la galera. L’unica che può salvarlo, scrive la madre, è proprio Else, cercando l’aiuto di Von Dorsday – amico benestante della famiglia, per coincidenza ospite del suo stesso albergo – con l’impegno di blandirlo ad ogni costo. Else viene dunque spinta dai genitori a prostituirsi per la loro convenienza, minando alla radice la sua fiducia – e quella dello spettatore – nel nucleo più intimo, quello familiare.

Ph. Luca Manfrini

La regia di Tiezzi, più che per la resa visiva (tra le invenzioni più riuscite, una casa di bambole che riproduce in scala il luogo in cui si svolge l’azione) brilla per la profondità psicologica e per la fedeltà al monologo interiore di Schnitzler, dove Else è sì fragile, ma anche civetta ed esibizionista. L’indifferenza con cui la famiglia la offre “in pegno” a Von Dorsday non distrugge l’innocenza di una bambina, ma la spontanea curiosità di una ragazza in preda ai primi turbamenti sessuali. Else in un primo momento pensa di potersi effettivamente sacrificare per il padre, cerca di mettersi alla prova e capire fin dove si può spingere, quanto può offrire, mentre precipita nella crisi che la conduce al suicidio.
Non è solo lo stato d’animo della protagonista, ma l’ipocrisia di un’intera società a subire un procedimento di dissezione nell’opera di Schnitzler. I valori sono solo maschere, pura apparenza sotto la quale trionfa il cinismo. Non a caso nella novella originale è il Carnaval di Schumann (letteralmente carnevale, o ballo in maschera) ad essere eseguito dall’orchestra nella sala da concerto dove Else si lascia infine svenire, dopo aver assunto i barbiturici. Tiezzi riprende il tema del mascheramento facendo indossare ai personaggi secondari del dramma (medici e inservienti) inquietanti maschere animali. Lo stesso Von Dorsday entra in scena con una testa di coccodrillo, ma in questo caso la funzione è ribaltata: quello del crudele predatore è il suo vero volto, mentre la maschera è quella del borghese temperato.
Ma a dare vera sostanza allo spettacolo è soprattutto la prova attoriale dei protagonisti,
Lucrezia Guidone (Else) e Martino D’Amico (Von Dorsday), che riescono a restare sul filo della quarta parete pur rimanendo ad una manciata di centimetri dagli spettatori. Ad una distanza così ridotta non si possono fingere le lacrime, il sudore, il senso di angoscia che la performance della Guidone – non priva di momenti di disturbante erotismo – riesce a restituire. Circondata dagli spettatori, sezionata dai loro sguardi, ricambia talvolta fissandoli a lungo, come per chiamarli in causa. Il conflitto interiore è messo a nudo, offerto senza pudore agli spettatori come in un kammerspiel senza filtri, dove la prossimità all’azione drammaturgica si fa a tratti eccessiva: alcuni reagiscono in effetti con un certo imbarazzo, come se Else, accettando l’infame proposta di Von Dorsday, potesse finire per denudarsi davvero di fronte a loro.

Alfredo Marasti

(visto il 16 giugno 2017)