«[…] io ho sempre detto, a me non interessa fare il testo di catechismo dove dici chi verrà dannato e chi verrà salvato, mi interessa se non altro porre dei problemi e delle domande su qual è il peccato. Se di peccato si può trattare.» Così diceva il drammaturgo Stefano Massini nel 2014, presentando l’acclamatissima Lehman Trilogy (premio Ubu 2015 e ultima grande regia di Luca Ronconi) al Piccolo di Milano. Dichiarazione che diventa quasi profetica parlando del Vangelo secondo Judah, ultimo lavoro di Massini, presentato in apertura del Pistoia Teatro Festival la sera di domenica 18 giugno, con la mise en espace di Claudia Sorace. Non uno spettacolo ma una lettura scenica – come la stessa regista ha precisato nell’intervista rilasciata ai ragazzi del laboratorio Giornalisti di confine – dove ad assumere centralità è soprattutto il testo. Testo che non necessitava, afferma sempre la Sorace, di sovrastrutture scenografiche o ricostruzioni storiche di alcun tipo; sono invece le musiche di Enrico Fink (grande sperimentatore della musica tradizionale ebraica) e la location scelta (Il loggiato dello Spedale del Ceppo in Piazza San Giovanni XXIII, sotto il celebre Fregio di Della Robbia che raffigura le Sette opere di Misericordia) gli unici elementi esterni al racconto di un Giuda mai così esplicitamente fragile e tormentato, con la doppia interpretazione di Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio.
Non serve essere biblisti o archeologi per cogliere quanto il lavoro di Massini sia profondamente intriso di religiosità e cultura ebraica; intervistato da Goffredo Fofi nel pomeriggio, poche ore prima della lettura, è stato lui stesso a raccontare nel dettaglio l’avvicinamento della sua famiglia alla comunità sefardita di Firenze, a contatto con la quale Massini è cresciuto anagraficamente ed artisticamente, non nel segno di una conversione bensì di una particolarissima contaminazione umana e culturale. Il suo Vangelo secondo Judah, lungi dall’essere una riscrittura del corrispondente vangelo apocrifo, è un’opera del tutto autonoma, comunque inscindibile dall’universo religioso di riferimento grazie alla struttura – nessuna divisione in atti, ma brevi paragrafi in successione come nella narrazione evangelica, circa 120 – e alla ricchezza di immagini, parole, suggestioni direttamente riconducibili ai testi sacri. È in effetti un silenzio quasi religioso quello creatosi in apertura, un raccoglimento come di fronte ad una sacra rappresentazione. Una voce salmodiante, femminile, si sovrappone a percussioni di sapore orientale mentre iniziamo a intravedere i due attori sulla scena ancora buia.
Nella parte sinistra del loggiato, mentre sfuma la musica, vediamo comparire Luigi Lo Cascio; in quella destra, più avanti, comparirà Ugo Pagliai. La lettura li vede alternarsi poche volte, con interventi individuali molto lunghi. Entrambi, nella seconda parte, compiono un passo di avvicinamento verso l’altro spostandosi di una loggia rispettivamente a destra e a sinistra, senza mai giungere a incontrarsi o a scambiarsi di posto. L’idea di un dualismo manicheo ma complementare tra i due – la prima cosa che viene in mente, la più scontata se il tema di fondo è la necessità del Male – non trova alcun riscontro durante la lettura. In effetti tra i due Giuda sulla scena non c’è contrasto, almeno non sul piano strettamente drammaturgico. Sembra invece configurarsi una sorta di rapporto osmotico, uno scambio di flussi agiti da entrambi nel corso della lettura, seppure con un dosaggio diverso a seconda della scena. Sia Lo Cascio che Pagliai danno voce, a turno, tanto al Judah fragile che a quello cinico, tanto al Judah avventato quanto a quello maturo. La scrittura di Massini, per niente estranea al tema del doppio, non cade mai nella banalità di consegnarci un Judah criminalmente bipolare, con una metà chiara e una scura. Lo scarto di anagrafe e di tradizione fra i due attori, le loro differenze timbriche e di registro, si traducono sorprendentemente in due voci diverse che raccontano la stessa storia. Il 49enne Lo Cascio parte con una recitazione classica e impostata per poi scomporla costantemente, a tratti deformandola in direzione un po’ beniana e cantilenante, a tratti “rappando” sulla musica; l’ottantenne Pagliai mantiene una narrazione elegante e dolcemente monotona, con poche eccezioni, per tutta la durata della lettura. Le musiche di Fink, dagli arrangiamenti curatissimi e lineari, contribuiscono ad unificare ed armonizzare l’insieme. Il Fregio Robbiano, valore aggiunto e parte integrante dello spazio scenico, brilla sopra il loggiato durante tutta la lettura, incastonato da un’illuminazione minimale.
La lettura non esamina se non in minima parte il tradimento di Judah, il suicidio, la crocefissione di Cristo: tutto questo rimane implicito, perché fa parte di una storia che già sappiamo. Assistiamo invece al racconto impossibile e appassionante della vita interiore di Judah, intrecciata a quella di Gesù (nella lettura Yehoshùa, come da tradizione ebraica) fin dagli abissi del nulla precedente al grembo materno. I due nascono insieme, anzi è l’anima di Yehoshùa a convincere quella di Judah, fin dall’inizio ostinata e contraria, a venire alla luce; come anche più avanti, nella parte finale, sarà Yehoshùa ad accompagnare Judah all’impiccagione, quasi tenendolo per mano – i due muoiono insieme così com’erano nati, entrambi pendendo da un legno. Tra i due momenti, a sostanziare l’opera è una prolungata, tormentatissima adolescenza, in cui i due compiono il difficile cammino – Yehoshùa con vera convinzione, Judah esitando fino all’ultimo – di eseguire un disegno già scritto e inevitabile. Se Judah si è fatto ladro, sembra dirci l’autore, è per reazione all’essere stato derubato della propria vita, della possibilità di una vita diversa.
Gli agganci con i temi del “doppio” e degli specchi di borgesiana memoria si sprecano: Lo Cascio e Pagliai si alternano dando ad almeno tre Judah, con uno schema che rievoca i fantasmi del Canto di Natale di Dickens: il Judah futuro forse un demonio, o il demonio – compare al Judah del passato, apparentemente per avvertirlo che può ancora cambiare strada, emanciparsi da una trama già scritta per lui. In realtà per tarpargli le ali: una ferita, identica sul braccio dei due ma già cicatrizzata nel futuro, li unisce lungo un percorso ineluttabile. Allora è il Judah del presente che si sdoppia, si guarda dall’esterno, si auto-rappresenta illudendosi (e illudendo lo spettatore) di potersi discostare dal suo compito. Il terzo Judah non agisce davvero nel dramma, è per l’appunto il Judah che conosciamo, con il suo copione classico (i trenta denari, il bacio, l’impiccagione), un personaggio che sembra inventato e a cui il Judah del presente davvero non crede di potersi conformare fino in fondo.
Il racconto ci porta buffamente anche a conoscere tre diversi Yehoshùa – nome comune all’epoca – poiché prima di imbattersi nel Gesù storico Judah ne incontrerà altri due, cadendo in una serie di fraintendimenti ed equivoci, alternando brevi momenti di euforia e fiducia per poi ripiombare nella consapevolezza di ciò che è inevitabile. Consapevolezza ardua da accettare anche da parte dello stesso Yehoshùa, intristito dal peso che grava su Judah, e se possibile ancora più invischiato nella trama: se Judah può permettersi la rabbia e il rifiuto, Yehoshùa può al massimo offrirgli il proprio dispiacere, la propria misericordia, il proprio aiuto: come si fa con un fratello minore, per aiutarlo a crescere.
Ma il vero specchio del Vangelo di Massini è l’umanità – cioè noi – nel suo cammino di scoperta e accettazione del dolore; un dolore per cui non sembra esistere cura (un paradosso in un dramma rappresentato nel loggiato di un antico ospedale) né salvezza (un paradosso in un dramma ispirato ad un Vangelo, per quanto apocrifo). Massini, rielaborando il tema della parabola della vigna («gli ultimi saranno i primi»), sintetizza l’umanità in tre categorie: i destinati a tradire come Judah, i destinati a essere traditi come Yehoshùa, e poi, per l’appunto, gli ultimi, coloro che rimangono fuori dai percorsi della Storia e del destino, gli inutili, i dimenticati. Beati saranno questi ultimi, ci dice Il Vangelo secondo Judah conducendoci ad un finale dolce e amarissimo al tempo stesso, poiché non dovranno affrontare il peso della scelta, poiché altri sceglieranno per loro.
La riscrittura del testo biblico, o qualsiasi opera che vi si ispiri, porta sempre con sé tutto l’immaginario potente, epico dell’incontro/scontro tra Bene e Male; a quest’immaginario attingono le arti più diverse, tendendo però ad appiattirsi su modalità di rappresentazione e di linguaggio autoreferenziali ed in genere poco pervasive, mirando ad intrattenere il pubblico (le grandi saghe cinematografiche e televisive da Star Wars a Lost a Harry Potter) o a indottrinarlo sfruttandone la passività (la divulgazione frontale dell’ultimo Benigni, il generico “evento culturale”). Massini riesce ad evitare tutto questo, consegnandoci un’opera inimitabile, laica, innovativa, conturbante. Sarà interessante assistere a eventuali future produzioni che potranno raccontarcela fuori dal contesto del loggiato dello Spedale del Ceppo, location particolarissima e irripetibile davanti alla quale un pubblico di circa 500 persone, rapito e partecipe, ha seguito la lettura per tutte le due ore e mezzo di durata.
Alfredo Marasti