Monthly Archives: June 2017

Ritratto in piedi. Intervista a Renata Palminiello

 

In occasione della prima edizione del Pistoia Teatro Festival Renata Palminiello ha dato voce e corpo al romanzo “Ritratto in piedi” di Gianna Manzini. L’abbiamo incontrata al tavolino di un bar di fronte al Teatro Manzoni. A cura di Edoardo Altamura (la foto quissopra è di Michelle Davis)

IL FREGIO ROBBIANO: L’OPERA CHE HA ISPIRATO VIRGILIO SIENI

Il Pistoia Teatro Festival ospiterà stasera e domani l’azione coreografica “Fregio” di Virgilio Sieni, già proposta negli anni passati ed ispirata al Fregio Robbiano dello Spedale del Ceppo. Si potrà partecipare allo spettacolo alle 20 e alle 20:45, spostandosi tra la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo De’ Rossi. La performance, che coinvolgerà musicisti e ballerini professionisti ma anche cittadini prestatisi all’iniziativa, indaga il senso di comunità, il rapporto con l’altro, le possibilità relazionali del corpo, fondendo il passato del Fregio con la nostra contemporaneità.

Risalente ai primi anni del Cinquecento, il fregio raffigurante le sette Opere di Misericordia è stato realizzato da Santi Buglioni, allievo dei Della Robbia e depositario dei loro segreti di cui si è servito per realizzare opere con l’originale tecnica della ceramica invetriata. L’opera si pone come testimonianza evangelica, ma la sua interpretazione iconografica è assai difficile dal momento che, oltre che di citazioni bibliche, è densa anche di richiami alle confraternite dedite a mettere in pratica, a partire dal Medioevo, le sette Opere. Non a caso, infatti, il fregio si pone come rappresentazione, quasi una copertina, delle numerose attività svolte all’interno dello Spedale. Incorniciato al principio e al termine da citazioni delle Beatitudini (Matteo, V, 7-8), il fregio vede alternarsi le sette Opere di Misericordia corporale con tre Virtù Cardinali e due Virtù Teologali. La lettura delle immagini inizia dal lato sinistro del portico con Vestire gli ignudi, seguito dalla prima parte di una delle Beatitudini, «Beati mundo corde q(onia)m», conclusa sull’estremità destra della facciata dalla scritta «Ipsi Deu(m) videbunt», ossia «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Matteo, V, 8); al margine sinistro della facciata si trova, invece, la scritta «Beati miseri cordes q(onia)m» non completata sul cartiglio del lato destro che rimane bianco. Proseguendo con le scene, si trovano Alloggiare i pellegrini, la Prudenza, Assistere gli infermi, la Fede, Visitare i carcerati, la Carità, Seppellire i morti, la Speranza, Dar da mangiare agli affamati, la Giustizia e Dar da bere agli assetati.

Foto di Michelle Davis

L’alternarsi delle scene e delle immagini ad altorilievo delle Virtù, vivaci e realistiche, lascia permeare un messaggio ancora attuale di una spiritualità cristiana concreta, fondata sul buonsenso e sull’operosità. Il fregio si pone come ponte tra l’avanzata arte fiorentina, importata a Pistoia in quei secoli proprio grazie al legame politico con Firenze, e l’arte didascalica medievale, di forte utilità pratica. Figura ricorrente nelle varie scene è lo Spedalingo fiorentino Leonardo Buonafede, intento a compiere le Opere; egli è circondato da raffigurazioni delle attività dello Spedale, rappresentate anche nei dettagli più insignificanti per la narrazione evangelica ma fondamentali per gli studi storici sul Ceppo e sulle usanze mediche dell’epoca. D’altra parte, il fregio ha due piani di interpretazione: quello didascalico, di lezione di spiritualità cristiana e di condotta civile, e quello iconografico e teologico. È stato difficile per gli storici trovare un’interpretazione univoca, tanto che molti dei personaggi raffigurati non sono stati ricondotti con sicurezza a figure bibliche o evangeliche (si veda, ad esempio, il pellegrino ospitato da Buonafede nella seconda scena). Senza dubbio numerose sono le citazioni artistiche: prima tra tutte, quella del David di Michelangelo che possiamo individuare nella figura a sinistra della prima scena (Vestire gli ignudi) che, seppur priva di carica emotiva, si mostra come il risultato di un attento intervento dell’artista nella narrazione, quasi a plasmare la scena attraverso citazioni di artisti contemporanei e antichi. Il lavoro di Virgilio Sieni cerca di ripercorrere le ˝tappe˝ dell’opera, concentrandosi sul tema del sorreggere ed essere sorretti dall’altro, in una fila che richiama l’andamento orizzontale del fregio reinterpretando il corpo come mezzo per abitare il mondo consapevolmente, in relazione coi luoghi della città – in questo caso, appunto, il fregio robbiano. Evidenzia, in particolare, il rapporto di ognuno con l’altro in quanto elemento fondamentale della nostra esistenza, quasi richiamando l’ontologia del filosofo ebraico Emmanuel Lévinas per cui l’essenza dell’uomo e il suo stesso esistere sono vincolati alla relazione con l’Altro.

Foto di Michelle Davis

Il Fregio è co-protagonista del festival non soltanto nella lettura in chiave coreografica di Sieni, ma è stato ˝palcoscenico˝ nello spettacolo di apertura: Il Vangelo secondo Judah, lettura scenica di Stefano Massini, con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai.

Lapo Ferri

Testo di riferimento:

GUERRIERI F., Il Fregio robbiano dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1982.

GIORNALISTI DI CONFINE SEGUE IL LAVORO DI VIRGILIO SIENI AL PISTOIA TEATRO FESTIVAL

Giornalisti di Confine, in occasione del Pistoia Teatro Festival, raggiunge la Saletta Gramsci, situata sul lato meridionale di piazza San Francesco, per assistere alle prove dello spettacolo “Fregio” di Virgilio Sieni. Il progetto “Cantieri del Gesto_Pistoia 2017” consta di due azioni coreografiche, “Fregio” e “Cammino Popolare”.
“Fregio” è un percorso attraverso 4 azioni coreografiche in tre luoghi, orientato verso il senso della condivisione e dell’incontro, un atlante di gesti edificato da cittadini e giovani danzatori, ispirato al Fregio dello Spedale del Ceppo di Pistoia e alle sue Opere di Misericordia.

Lo spettacolo, in scena oggi 23 giugno alle ore 20.00 e 20.45 (replica), attraverserà spazi di rilevante interesse culturale quali la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo de’ Rossi.

Giornalisti di Confine ha catturato qualche frammento delle prove di questo lavoro e ha intervistato 5 cittadine e danzatrici che partecipano al progetto.

Ci vediamo stasera.
Non mancate!

La ferita della bellezza. Intervista a Giovanni Guerrieri

Siamo nella chiesetta medievale di San Michele in Cioncio a Pistoia, scenario il 22, 23 e 24 dello spettacolo La ferita della bellezza di Luca Scarlini. Il regista Giovanni Guerrieri ci parla del lavoro, che affronta la vita del noto cantante pistoiese del Seicento Atto Melani.

Giovanni Guerrieri a sx. Ph Michelle Davis

Perché avete scelto di trattare la figura del pistoiese Atto Melani e qual è il rapporto tra il testo e la città di Pistoia?

Atto Melani, il protagonista di questa pièce di Luca Scarlini, fu una “rockstar” nel Seicento, una vedette internazionale. Castrato di famiglia pistoiese, ebbe due fratelli, Jacopo e Alessandro, anch’essi musicisti, ma la sua fama non fu nemmeno paragonabile alla loro: frequentò le corti internazionali prima come cantante evirato, poi come diplomatico e anche come spia. Tra gli altri, è stato molto vicino al Re Sole e a Mazzarino e ha potuto toccar con mano gli intrighi internazionali del suo tempo. Ritornò in varie occasioni a Pistoia, dove conservò degli interessi di famiglia.
Il testo, da un’idea di Massimo Grigò, uno degli attori, è stato scritto da Luca Scarlini, che ha pensato di avvicinare due fratelli in un dialogo: Atto, ormai ex-cantante e diplomatico affermato, e Jacopo, “integro”, ossia non castrato, per volere del padre che lo scelse per dare discendenza ai Melani. Tale confronto è arricchito da un terzo personaggio, una sorta di “fantasma della musica” interpretato dall’attore e controtenore Maurizio Rippa, che ci restituisce gli echi di quel mostro sacro che fu Atto Melani quando, ormai al tramonto della sua vita, osservava un mondo artistico che stava cambiando: le donne iniziavano a occupare i palcoscenici, la natura stava prendendo il sopravvento sull’artificio.

Perché La ferita della bellezza?
È un’idea di Luca Scarlini: è l’atto innominabile della castrazione. Sembra che Pistoia, in quegli anni, fosse la maggiore esportatrice di evirati a livello italiano e non solo. L’evirazione era una pratica consolidata che permise ad alcuni di ottenere grande successo, come ad Atto Melani, che divenne miliardario. La sua fama ricadde anche sulla sua famiglia: il fratello Giacinto, rimasto a Pistoia, godé dei benefici di Atto.

Cosa vi ha fatto scegliere proprio la chiesa di San Michele in Cioncio come scenario dello spettacolo?
Realizzarlo in questa chiesa è come far ritornare Atto Melani nel cuore della città di Pistoia: avevamo bisogno di un luogo intrigante e antico.

Quale lavoro hai svolto sul testo originale di Luca Scarlini anche insieme agli interpreti?
Scarlini è molto preparato su questo argomento, ha scritto diversi testi soprattutto scientifici sulle figure dei castrati – tra cui uno edito da Bollati-Boringhieri, Lustrini per il regno dei cieli – e ci ha dato molto materiale su cui lavorare. Noi l’abbiamo dovuto smontare e rimontare per poter tirar fuori questi due caratteri che all’inizio sembrano usciti da una commedia di Molière, un Molière illuminato a lume di candela. L’equilibrio pian piano si infrange per far sbocciare il dramma dei due fratelli: il senso di colpa di quello “integro” e l’affetto che li tiene insieme.

Ph Michelle Davis

Uno spettacolo sul personaggio storico o, in generale, sulla musica e sull’arte?
Direi sul personaggio, perché il testo è stato creato intorno alla sua figura. Abbiamo con noi uno straordinario clavicembalista, Manuel Gelli, che quando ha iniziato a suonare la prima volta ci ha immediatamente trasportati nel Seicento con pochi accordi. Lui, insieme a Maurizio Rippa, offre un assaggio della musica, che di tanto in tanto fa capolino rimanendo però un fantasma sullo sfondo. È il dramma tra i due fratelli il vero principio della pièce.

Trattandosi di una figura storica importante per la nostra città, inviterebbe a questo spettacolo solo i pistoiesi o pensa possa essere significativo per tutti?
Vista la bellezza della chiesa e l’allestimento penso sia uno spettacolo per tutti. La trama è scorrevole e gli ambienti e le atmosfere emotive sono particolarmente avvolgenti: per questi motivi non è uno spettacolo per operatori, ma per il pubblico. Certamente i riferimenti alla propria città, a luoghi che conoscono bene, sono colti in particolare dagli spettatori pistoiesi sollecitati nella dimensione affettiva.

 

Lapo Ferri

Giornalisti di Confine segue il lavoro di Virgilio Sieni al Pistoia Teatro Festival

Giornalisti di Confine, in occasione del Pistoia Teatro Festival, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro raggiunge la Saletta Gramsci, situata sul lato meridionale di piazza San Francesco, per assistere alle prove dello spettacolo “Fregio” di Virgilio Sieni. Il progetto “Cantieri del Gesto_Pistoia 2017″ consta di due azioni coreografiche, “Fregio” e “Cammino popolare”. “Fregio” è un percorso attraverso 4 azioni coreografiche in tre luoghi, orientato verso il senso della condivisione e dell’incontro, un atlante di gesti edificato da cittadini e giovani danzatori e ispirato al Fregio dello Spedale del Ceppo di Pistoia e alle sue Opere di Misericordia.

Lo spettacolo, in scena oggi 23 giugno alle ore 20.00 e 20.45 (replica), attraverserà spazi di rilevante interesse culturale quali la Biblioteca Fabroniana, Palazzo Fabroni e la Terrazza Grandonio di Palazzo de’ Rossi.

Giornalisti di Confine ha catturato qualche frammento delle prove di questo lavoro.

A cura di Matilde Navicelli, Giulia Trovato e Rebecca Giusti, con Edoardo Altamura.

«Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne». Massini al Pistoia Teatro Festival

Nella tradizione ebraica la carne deve seguire le antiche regole stabilite nella Torah, le quali vengono trattate in particolare nel Pentateuco. Questa tecnica è detta kasherùt. Nella tradizione kasherùt, per esempio, non è possibile mangiare della carne bevendo del latte o cucinarla nel latte, nel Deuteronomio è infatti presente il precetto «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre». Ma probabilmente il più celebre tra tutti questi precetti ormai millenari, oggi ancora seguiti pedissequamente dalle comunità ebraiche in tutto il mondo, è legato all’uso del sangue. «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue», Genesi 9,4 e in pratica il precetto fondamentale nella macelleria kasherùt. L’animale, secondo le scritture, va ucciso con un colpo netto tramite una lama peculiare, e il sangue travasato fuori dal suo corpo va lasciato scorrere fino al totale dissanguamento. Per morire gli animali kasherùt vengono dunque dissanguati, qualsiasi altra tecnica ne inficerebbe la purezza. Persino il taglio dev’essere preciso, altrimenti non è kasherùt, e ancor prima il macellaio deve proferire una berakhah, una benedizione, altrimenti non è kasherùt e quindi non può essere consumato. Non è un caso se una delle criticità del discorso cristiano presente nel Nuovo Testamento per gli ebrei è quel Verbo si che si è fatto carne. La carne è una questione molto importante per gli ebrei, e ha a che fare con l’innocenza degli intenti e quindi dell’anima.
«Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne» è Stefano Massini che attacca la contemporanea grafomania social durante un incontro con Goffredo Fofi, moderato da Roberto Sacchettini, nella ricca cornice del Pistoia Teatro Festival (incontro organizzato domenica 18 giugno alle 18.00). A poche ore dalla prima in assoluto del suo nuovo testo, Il Vangelo secondo Judah, nella mise en espace di Claudia Sorace con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai, Massini lancia nel flusso della conversazione questa interessante constatazione, che diventa ancora più significativa alla luce delle sue influenze ebraiche. Nell’incontro infatti il drammaturgo ci ha raccontato come è venuto in contatto con l’ebraismo e come questi lo abbia condizionato in tenera età. Entrambi i genitori di Massini lavoravano nell’ambiente medico, nessuno dei due aveva una particolare propensione per il mondo dell’arte, a parte la l’interesse del padre verso il cinema, e di certo nessuno dei due era ebreo ma bensì di estrazione cattolica. Da bambino Massini venne a sapere che suo padre mentre lavorava aveva salvato la vita di un suo collega: Renzo Servi, uno degli anziani della comunità ebraica fiorentina. Anche in questo caso entra in gioco la Torah, dato che secondo le scritture se un non-ebreo salva un ebreo allora a lui e alla sua famiglia dovranno essere aperte le porte della comunità, e così fu. La mattina Massini la passava come tutti i bambini della sua età a scuola, tra un’analisi logica e un po’ di algebra, ma il pomeriggio lo trascorreva interamente al tempio della comunità fiorentina, dove le lezioni erano in inglese per il grande numero di americani presenti nella comunità, dove c’era un’enorme biblioteca a sua totale disposizione, e non secondariamente dove era presente al suo interno un piccolo teatro. Gli unici attori potevano essere, sempre secondo tradizione, gli anziani della comunità, e si potevano mettere in scena soltanto spettacoli della tradizione ebraica fiorentina. Nella biblioteca Massini ha imparato e assimilato fino a che punto la parola sia fondamentale per gli ebrei, tanto da arrivare a definire il rapporto tra ebraismo e letteratura come simbiotico. Fu proprio il rabbino del tempio a regalargli come premio di maturità il suo primo abbonamento a teatro, un gesto piuttosto significativo alla luce della sua finora peculiare carriera. Con un percorso di studi piuttosto serrato e dopo una laurea in egittologia, Massini esplorerà il mondo del teatro in modo più continuativo, con i risultati che sappiamo.

«Ho studiato tanti autori, ma per me l’ebraismo è tutto». È il creatore de Il Vangelo secondo Judah che risponde a Fofi, il quale aveva appena finito il suo intervento iniziale elencando dei possibili maestri nei confronti di Massini. Dopo aver brevemente citato Freud come esempio di «scrittura drammaturgica» arriva l’attacco di cui prima, quello contro la mania di scrivere contemporanea, una stoccata contro l’abuso di ciò che quegli anni nel tempio gli hanno insegnato essere la cosa più importante e sacra: la parola. «Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne». Il discorso analizzato attraverso una prospettiva cristiana è piuttosto chiaro e lineare: si scrive con superficialità, con leggerezza, senza dover per forza veicolare qualcosa nel nostro messaggio, ma anzi svilendo la forza della parola. Ma guardandola dalla prospettiva kasherùt l’affermazione di Massini acquisisce un ulteriore significato. Manca la purezza prima del taglio, non c’è la berakhah del macellaio, non vi è insomma il processo necessario perché la parola si faccia effettivamente carne. I lavori di Massini sono caratterizzati da una densità di concetti che brulicano numerosi sotto la sottile coperta della carta, infervorati come tori durante la corrida, pronti a deflagrare nell’interpretazione dell’attore. Per questo Massini ha anche affermato sbrigativamente che per lui non è più concepibile la differenza in generi, anche perché la parola perde un potenziale di significati talmente ampio che è mortificante costringerla nei binari del genere. Definire l’opera di Massini è difficile, persino Goffredo Fofi fa fatica a categorizzare il suo talento, prima afferma che «non vedo padri per Massini», per poi rendersi conto dell’immensità di tale sentenza e quasi a correggersi ne cita ben tre: Brecht, Bernhard e Ibsen. Dal canto suo Massini cita come esempi per il suo teatro: Ronconi, Castri, De Berardinis e Costa. Di questi quattro solo di uno ricorda un suo spettacolo, una trilogia curiosamente, l’unica citato in tutto l’incontro a parte la Lehman Trilogy, ovvero la Trilogia della villeggiatura nella messa in scena di Massimo Castri. Un incontro interessante questo tra l’ascesa e la caduta dei Lehman, banchieri dal successo che pareva incrollabile poi demolito con indifferenza dalla grande crisi del 2008, e quello invece delle vicende amorose di Giacinta e le sue smanie, le sue avventure e quel terribile ritorno dalla villeggiatura. Anche quella di Giacinta e dei suoi comprimari è una parabola discendente, che presenta tutte le caratteristiche della disfatta. Nella messa in scena di Castri gli elementi già contemporanei di Goldoni vengono amplificati da alcune invenzioni che ne aumentano esponenzialmente il dialogo con la società italiana degli anni ’90, anticipando di fatto gli effetti su di essa dopo la crisi. Quella finta e di comodo solidità del tessuto medio-borghese è andata in frantumi nel Ritorno come nella realtà. È vero che Massini sostiene il primato della parola, e lo dice senza tergiversarci su, ma se nel parlare della trilogia ha fatto riferimento a Castri e non a Goldoni e proprio perché riconosce nel lavoro del regista nato a Cortona un lavoro anche di scrittura. «Non consegno un testo ai registi ma del materiale scenico». Questo lo afferma proprio perché quel “materiale scenico” è composto da tutti gli elementi che servono perché il testo diventi fecondo, perché la carne sia purificata, in quelle pagine così piene c’è la benedizione e il coltello. Massini ha citato quella trilogia perché sa bene che Castri rendeva ogni elemento della sua mise-en-scène diegetico, dalle straordinarie scenografie curate da Maurizio Balò (non a caso entrambi premi Ubu nel ’97 proprio per la Trilogia) fino ai rumori, tavolta quasi impercettibili ma che donavano il contesto per cui le parole si colmavano di significati, «Noi comunichiamo solo quando la parola è unita al suo contesto.» Questo non l’ha detto Castri, ma Massini, riflettendo sulla contemporanea afasia che deriva, secondo lui, da un contesto esanime, quasi descrivendo i social come un giardino abbandonato che, anziché armonizzarsi con l’ambiente per creare un’atmosfera piacevole e fertile è pieno d’edera e marcisce. Nel dare una estemporanea definizione di teatro il regista di San Donnino dice «Forma straordinaria di compromesso: traduzione delle parole in corpi». Secondo il più citato di tutti i testi sul teatro, la Poetica di Aristotele, c’è teatro quando c’è azione, o per meglio dire «chi imita, imita persone in azione». Massini fa un ulteriore passo indietro, si reinventa shocḥet, ovvero il macellaio di carne kasherùt, benedice l’animale, brandisce la lama con fermezza a colpisce con una precisione profetica. Il suo è un lavoro che anticipa l’azione e gli fornisce l’humus per fiorire in tutte le sue tonalità. La parola infine si fa carne.

 

Giuseppe Di Lorenzo

Giornalisti di Confine segue il lavoro di Kepler-452 al Pistoia Teatro Festival

Giornalisti di Confine, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro, raggiunge la Fortezza Santa Barbara in occasione del Pistoia Teatro Festival per assistere alle prove dello spettacolo “La rivoluzione è facile se sai come farla” della compagnia Kepler-452, con le musiche de Lo Stato Sociale.

Ciao, siamo Lucrezia e Aurora. Abbiamo avuto la grande opportunità di incontrare e intervistare la compagnia Kepler-452, in particolare Enrico Baraldi, Alberto “Bebo” Guidetti dello Stato Sociale, e il regista dello spettacolo Nicola Borghesi. L’incontro è avvenuto nella maestosa Fortezza di Santa Barbara a Pistoia, dove la sera stessa (20 giugno) è andato in scena il loro spettacolo. Eravamo entrambe abbastanza agitate ed emozionate all’idea di intervistare per la prima volta qualcuno, ma tutto ciò si è poi rivelato molto più semplice di quello che pensavamo. Abbiamo conosciuto persone giovani, semplici, sincere e simpatiche. Ci hanno messo molto a nostro agio, anche durante le piccole interviste individuali, che si sono rivelate divertenti e interessanti. Siamo rimaste molto colpite dall’intreccio di pezzi musicali e recitazione, e anche dalla capacità, sia degli attori che della musica, di legarsi insieme, risultando sempre chiari e coesi. Questa esperienza non ha deluso le nostre aspettative e che ci ha dato la possibilità di guardare lo spettacolo con occhi diversi.
A cura di Aurora Bellucci e Lucrezia Zanini, con Lorenzo Donati.

Giornalisti di Confine segue il lavoro di Sotterraneo al Pistoia Teatro Festival

Giornalisti di Confine, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro, raggiungono Villa Scornio in occasione del Pistoia Teatro Festival per assistere alle prove dello spettacolo “Giro del mondo in 80 giorni_kids” della compagnia Sotterraneo.
Come mai “kids”? Proprio perché lo spettacolo, oltre a essere indirizzato anche ai giovanissimi, è allestito come uno storygame itinerante a cui gli allievi della Scuola di Musica “Teodulo Mabellini” di Pistoia e il Coro “Voci Danzanti” – Fondazione Pistoiese Promusica partecipano in modo attivo, accompagnando musicalmente e vocalmente i tre attori in scena: Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Mattia Tuliozi.
Il progetto consiste in un percorso all’interno del parco della villa che si snoda toccando una serie di tappe diverse e coinvolgendo spettatori di tutte le età, dai 9 ai 90 anni.
Noi siamo riusciti a intervistare alcuni elementi di questo gruppo, bambini e ragazzi dai 10 ai 18 anni, che ci hanno raccontato la loro esperienza “in giro per il mondo”.
A cura di Marta Bongi, Giulio Pacini e Maria Giulia Gervasi, con Marzio Badalì.

Il Vangelo secondo Judah, dialogo tra misericordia e tradimento

Se Giuda non fosse stato un traditore, o non avesse voluto esserlo? Come sarebbe cambiata la storia degli ultimi millenni? E, soprattutto, se non avesse voluto, perché ha tradito Gesù? Quando l’ATP ha commissionato a Stefano Massini uno spettacolo, la richiesta era di creare un testo che avesse a che fare con le Sette Opere di Misericordia del Fregio robbiano. Ed ecco, dunque, la rappresentazione di un Giuda che è il più misericordioso degli Apostoli, che non vuole tradire ma è destinato a farlo, le cui scelte sono sottomesse a un disegno da cui non può fuggire.
È proprio il Fregio a dialogare, per tutta la durata de Il Vangelo secondo Judah (andato in scena il 18 giugno scorso, regia di Claudia Sorace, con Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio), con il testo di Stefano Massini e con le musiche di Enrico Fink, seguendo Giuda nel suo drammatico racconto: la nascita, già segnata dalla consapevolezza del suo destino, il battesimo nel Giordano, l’incontro con Gesù, la fuga dalla sua sorte che, però, inesorabilmente fa il proprio corso. Così Giuda tenta di scappare da se stesso, ma si ritrova a dialogare con Gesù, nato nel medesimo istante, e a morire insieme a lui, dopo averlo tradito e venduto.

ph Michelle Davis

 

Lo spazio occupato dai due attori è spoglio: già di per sé scenografico, lo Spedale del Ceppo è decorato solo dal Fregio robbiano, illuminato con una semplice luce bianca, e di tanto in tanto le campate vengono colorate da luci più o meno intense che seguono l’andamento della lettura e richiamano le immagini evocate dal testo. La piccola orchestra, composta dai docenti della Scuola Mabellini di Pistoia, è disposta lungo il confine di piazza Giovanni XXIII, ed esegue musiche che, a volte in completa sintonia e a volte in contrasto col testo, creano l’atmosfera in cui ambientare le scene evangeliche raccontate, seguendo al contempo le riflessioni intime del protagonista.
I due attori hanno fornito interpretazioni molto differenti – quella di Lo Cascio intima e musicale, quella di Pagliai più scandita ma comunque vivace – rendendo perfettamente l’idea della dualità che caratterizza Giuda: quella del traditore misericordioso, di colui che condanna Gesù senza volerlo, che fugge da sé stesso ma non può fare a meno di sentirsi partecipe del proprio destino. Ma la contraddizione è addirittura maggiore: Giuda è allo stesso tempo libero ed inserito in un progetto divino, e la sua unica vera libertà è quella di accettare il progetto che gli è stato destinato.
La vita di Giuda non è caratterizzata dalla crescita: consapevole della propria sorte già dal momento prima di nascere, «nell’età in cui tutti si credono eterni, io scoprii di non esserlo» scandisce Pagliai raccontando del battesimo del protagonista. La sua storia non è segnata da un rapporto con Dio, ma da una relazione con se stesso, con la propria duplicità, dando per scontato e quasi mai mettendo in dubbio il destino assegnatogli.
La domanda che attanaglia Giuda – più che una domanda, appunto, è una constatazione – dovrebbe interrogare anche il pubblico, rievocando l’idea che già gli antichi proponevano del Fato: siamo veramente liberi? Non si tratta di una libertà sancita dalla legge o da una carta costituzionale, ma di qualcosa di più profondo e insito nella nostra natura: siamo dotati di libero arbitrio o siamo sottomessi a una legge superiore, a un disegno prestabilito?
Il testo di Massini non fornisce una risposta: si potrebbe pensare che una predestinazione insormontabile sia stata assegnata solo a Giuda, partecipe del progetto divino di salvezza, e non a tutti gli uomini. Più che altro, ci porta a rivalutare la Storia e a mettere in dubbio i comportamenti dei suoi personaggi – forse uomini che hanno seguito un progetto prestabilito e non hanno agito di propria sponte, con una effettiva libertà.

ph Michelle Davis

Ciò che si avvicina più alla realtà dello spettatore, di ognuno di noi, non è tanto la riflessione su Giuda, quanto la riflessione di Giuda: la pesantezza di sentirsi parte di un progetto, la difficoltà di una vita che non è semplice ricerca di uno scopo, ma realizzazione di un fine già deciso. «Per un uomo solo una cosa è peggiore di non avere un compito, ed è scoprire di averlo. Nel mio caso sapevo adesso di avere una strada, ma ignoravo quale. Tutto guardava a un altare futuro, a cui sarei giunto per farmi immolare. Ma ignoravo come, ignoravo quando. Per cui tutto, d’ora innanzi, sarebbe stato solo un aspettare». In questo Giuda non è diverso da tutti gli uomini, certi di avere uno scopo ma dubbiosi su quale esso sia, assorbiti dalla certezza e dimentichi che «la vita è un fatto, non un progetto».

Credo non abbia senso, però, estraneare eccessivamente il testo dalla sua vera natura: un apocrifo raccontato dallo stesso Giuda, che è l’unico protagonista e il vero cardine dell’interpretazione: non è più Gesù al centro del racconto evangelico, la salvezza degli uomini adesso è legata alla scelta e alla pseudo libertà del quarto figlio di Iscariota. Il lavoro svolto da Massini sui Vangeli non canonici è profondo e ha come scopo, d’altra parte, quello di reinterpretare la figura di Giuda e metterla in relazione con la misericordia: non tanto quella divina, quanto quella del protagonista stesso e, forse, anche quella del pubblico, mosso a compassione verso un personaggio da sempre additato come “traditore” per antonomasia.

Lapo Ferri