Nella tradizione ebraica la carne deve seguire le antiche regole stabilite nella Torah, le quali vengono trattate in particolare nel Pentateuco. Questa tecnica è detta kasherùt. Nella tradizione kasherùt, per esempio, non è possibile mangiare della carne bevendo del latte o cucinarla nel latte, nel Deuteronomio è infatti presente il precetto «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre». Ma probabilmente il più celebre tra tutti questi precetti ormai millenari, oggi ancora seguiti pedissequamente dalle comunità ebraiche in tutto il mondo, è legato all’uso del sangue. «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue», Genesi 9,4 e in pratica il precetto fondamentale nella macelleria kasherùt. L’animale, secondo le scritture, va ucciso con un colpo netto tramite una lama peculiare, e il sangue travasato fuori dal suo corpo va lasciato scorrere fino al totale dissanguamento. Per morire gli animali kasherùt vengono dunque dissanguati, qualsiasi altra tecnica ne inficerebbe la purezza. Persino il taglio dev’essere preciso, altrimenti non è kasherùt, e ancor prima il macellaio deve proferire una berakhah, una benedizione, altrimenti non è kasherùt e quindi non può essere consumato. Non è un caso se una delle criticità del discorso cristiano presente nel Nuovo Testamento per gli ebrei è quel Verbo si che si è fatto carne. La carne è una questione molto importante per gli ebrei, e ha a che fare con l’innocenza degli intenti e quindi dell’anima.
«Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne» è Stefano Massini che attacca la contemporanea grafomania social durante un incontro con Goffredo Fofi, moderato da Roberto Sacchettini, nella ricca cornice del Pistoia Teatro Festival (incontro organizzato domenica 18 giugno alle 18.00). A poche ore dalla prima in assoluto del suo nuovo testo, Il Vangelo secondo Judah, nella mise en espace di Claudia Sorace con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai, Massini lancia nel flusso della conversazione questa interessante constatazione, che diventa ancora più significativa alla luce delle sue influenze ebraiche. Nell’incontro infatti il drammaturgo ci ha raccontato come è venuto in contatto con l’ebraismo e come questi lo abbia condizionato in tenera età. Entrambi i genitori di Massini lavoravano nell’ambiente medico, nessuno dei due aveva una particolare propensione per il mondo dell’arte, a parte la l’interesse del padre verso il cinema, e di certo nessuno dei due era ebreo ma bensì di estrazione cattolica. Da bambino Massini venne a sapere che suo padre mentre lavorava aveva salvato la vita di un suo collega: Renzo Servi, uno degli anziani della comunità ebraica fiorentina. Anche in questo caso entra in gioco la Torah, dato che secondo le scritture se un non-ebreo salva un ebreo allora a lui e alla sua famiglia dovranno essere aperte le porte della comunità, e così fu. La mattina Massini la passava come tutti i bambini della sua età a scuola, tra un’analisi logica e un po’ di algebra, ma il pomeriggio lo trascorreva interamente al tempio della comunità fiorentina, dove le lezioni erano in inglese per il grande numero di americani presenti nella comunità, dove c’era un’enorme biblioteca a sua totale disposizione, e non secondariamente dove era presente al suo interno un piccolo teatro. Gli unici attori potevano essere, sempre secondo tradizione, gli anziani della comunità, e si potevano mettere in scena soltanto spettacoli della tradizione ebraica fiorentina. Nella biblioteca Massini ha imparato e assimilato fino a che punto la parola sia fondamentale per gli ebrei, tanto da arrivare a definire il rapporto tra ebraismo e letteratura come simbiotico. Fu proprio il rabbino del tempio a regalargli come premio di maturità il suo primo abbonamento a teatro, un gesto piuttosto significativo alla luce della sua finora peculiare carriera. Con un percorso di studi piuttosto serrato e dopo una laurea in egittologia, Massini esplorerà il mondo del teatro in modo più continuativo, con i risultati che sappiamo.
«Ho studiato tanti autori, ma per me l’ebraismo è tutto». È il creatore de Il Vangelo secondo Judah che risponde a Fofi, il quale aveva appena finito il suo intervento iniziale elencando dei possibili maestri nei confronti di Massini. Dopo aver brevemente citato Freud come esempio di «scrittura drammaturgica» arriva l’attacco di cui prima, quello contro la mania di scrivere contemporanea, una stoccata contro l’abuso di ciò che quegli anni nel tempio gli hanno insegnato essere la cosa più importante e sacra: la parola. «Oggi tutto è scritto ma non si fa mai carne». Il discorso analizzato attraverso una prospettiva cristiana è piuttosto chiaro e lineare: si scrive con superficialità, con leggerezza, senza dover per forza veicolare qualcosa nel nostro messaggio, ma anzi svilendo la forza della parola. Ma guardandola dalla prospettiva kasherùt l’affermazione di Massini acquisisce un ulteriore significato. Manca la purezza prima del taglio, non c’è la berakhah del macellaio, non vi è insomma il processo necessario perché la parola si faccia effettivamente carne. I lavori di Massini sono caratterizzati da una densità di concetti che brulicano numerosi sotto la sottile coperta della carta, infervorati come tori durante la corrida, pronti a deflagrare nell’interpretazione dell’attore. Per questo Massini ha anche affermato sbrigativamente che per lui non è più concepibile la differenza in generi, anche perché la parola perde un potenziale di significati talmente ampio che è mortificante costringerla nei binari del genere. Definire l’opera di Massini è difficile, persino Goffredo Fofi fa fatica a categorizzare il suo talento, prima afferma che «non vedo padri per Massini», per poi rendersi conto dell’immensità di tale sentenza e quasi a correggersi ne cita ben tre: Brecht, Bernhard e Ibsen. Dal canto suo Massini cita come esempi per il suo teatro: Ronconi, Castri, De Berardinis e Costa. Di questi quattro solo di uno ricorda un suo spettacolo, una trilogia curiosamente, l’unica citato in tutto l’incontro a parte la Lehman Trilogy, ovvero la Trilogia della villeggiatura nella messa in scena di Massimo Castri. Un incontro interessante questo tra l’ascesa e la caduta dei Lehman, banchieri dal successo che pareva incrollabile poi demolito con indifferenza dalla grande crisi del 2008, e quello invece delle vicende amorose di Giacinta e le sue smanie, le sue avventure e quel terribile ritorno dalla villeggiatura. Anche quella di Giacinta e dei suoi comprimari è una parabola discendente, che presenta tutte le caratteristiche della disfatta. Nella messa in scena di Castri gli elementi già contemporanei di Goldoni vengono amplificati da alcune invenzioni che ne aumentano esponenzialmente il dialogo con la società italiana degli anni ’90, anticipando di fatto gli effetti su di essa dopo la crisi. Quella finta e di comodo solidità del tessuto medio-borghese è andata in frantumi nel Ritorno come nella realtà. È vero che Massini sostiene il primato della parola, e lo dice senza tergiversarci su, ma se nel parlare della trilogia ha fatto riferimento a Castri e non a Goldoni e proprio perché riconosce nel lavoro del regista nato a Cortona un lavoro anche di scrittura. «Non consegno un testo ai registi ma del materiale scenico». Questo lo afferma proprio perché quel “materiale scenico” è composto da tutti gli elementi che servono perché il testo diventi fecondo, perché la carne sia purificata, in quelle pagine così piene c’è la benedizione e il coltello. Massini ha citato quella trilogia perché sa bene che Castri rendeva ogni elemento della sua mise-en-scène diegetico, dalle straordinarie scenografie curate da Maurizio Balò (non a caso entrambi premi Ubu nel ’97 proprio per la Trilogia) fino ai rumori, tavolta quasi impercettibili ma che donavano il contesto per cui le parole si colmavano di significati, «Noi comunichiamo solo quando la parola è unita al suo contesto.» Questo non l’ha detto Castri, ma Massini, riflettendo sulla contemporanea afasia che deriva, secondo lui, da un contesto esanime, quasi descrivendo i social come un giardino abbandonato che, anziché armonizzarsi con l’ambiente per creare un’atmosfera piacevole e fertile è pieno d’edera e marcisce. Nel dare una estemporanea definizione di teatro il regista di San Donnino dice «Forma straordinaria di compromesso: traduzione delle parole in corpi». Secondo il più citato di tutti i testi sul teatro, la Poetica di Aristotele, c’è teatro quando c’è azione, o per meglio dire «chi imita, imita persone in azione». Massini fa un ulteriore passo indietro, si reinventa shocḥet, ovvero il macellaio di carne kasherùt, benedice l’animale, brandisce la lama con fermezza a colpisce con una precisione profetica. Il suo è un lavoro che anticipa l’azione e gli fornisce l’humus per fiorire in tutte le sue tonalità. La parola infine si fa carne.
Giuseppe Di Lorenzo