In occasione della prima edizione del Pistoia Teatro Festival la redazione del laboratorio Giornalisti di Confine ha intervista Ascanio Celestini, in programma con “Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo”, studio per il nuovo spettacolo dell’autore e attore romano. A cura di Edoardo Altamura
Monthly Archives: June 2017
Il Cammino Popolare di Virgilio Sieni chiude il Pistoia Teatro Festival
I cittadini di Pistoia protagonisti della chiusura del Pistoia Teatro Festival.
Se questa performance necessitasse di un sottotitolo senza dubbio sarebbe: Saggio su come condividere uno spazio. Ma l’ultima coreografia ideata da Virgilio Sieni ha il pregio di esaurire ogni commento superfluo con l’azione. Cammino Popolare non esordisce a Pistoia, ha un suo antecedente a Milano, anche lì cittadini e danzatori mescolati tra di loro, creavano questa massa in continuo e ordinato movimento, intervallata da coreografie collettive o divisa in piccole cellule indipendenti, ma assolutamente armoniche tra di loro. La forza di questo progetto sta nell’idea di comunità di Sieni, clamorosamente inclusiva se contiamo i tempi in cui viviamo, e fondata su una solidarietà che non si dissolve con la parola (o la promessa politica), ma che trova la sua dimensione ideale nell’azione, nel gesto. Naomi Berrill, sotto il porticato di Piazza Giovanni XXIII, suona il suo violoncello e canta delle arie astratte e impalpabili, senza parole ma solo suoni, le corde vengono sfregate o pizzicate alternando melodia e ritmo, in base al momento vissuto dall’azione coreografica in piazza. Pistoiesi e danzatori dei Cantieri del gesto si presentano come il Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, all’epoca eravamo appena entrati in nuovo secolo, e quella fiumana di lavoratori pretendeva nuovi diritti. Non c’era violenza nel popolo rappresentato da Pellizza da Volpedo, non c’era un’arma, non c’era odio, semmai c’era rabbia, repressa spesso col sangue, e c’erano famiglie, quel dipinto fra l’altro ricorda in modo chiaro la struttura classica del fregio. Sotto il fregio robbiano abbiamo visto certamente lavoratori, abbiamo visto famiglie, ma il contesto contemporaneo comunicava anche tanto altro. In un momento storico in cui noi, un paese del così detto primo mondo, ci ritroviamo a lottare per un lavoro dignitoso o per una pensione modesta, parlare di inclusione, solidarietà e partecipazione sembra quasi un ossimoro. Sembra che oggi ogni cosa debba passare per la violenza, che sia terroristica o verbale, le divisioni sociali si sono inasprite, la discussione politica non trova il dialogo che però il voto pretende, la mediazione perché non c’è una forza trascinate che convinca gran parte degli europei. Sieni in questo contesto, riduce il tutto a Pistoia, anzi: ad una pizza di Pistoia, e la fa vivere. In senso letterale però. La camminata parte dalla loggia e attraversa tutta la piazza fino all’estremo opposto, per poi tornare alla loggia in un ciclo continuo. Da questa migrazione senza fine ogni tanto si staccano dei terzetti, quintetti e sestetti che compongono coreografie autonome che vengono assimilate dalla massa ad ogni suo passaggio. I terzetti sono spesso le coreografie più dinamiche, c’è sempre un danzatore che si accascia, cade, e altri due che lo aiutano, con le mani gli sorreggono la testa, come in una pietà michelangiolesca collettiva.
Ph. Michelle Davis
Gli altri gruppi coreutici viaggiano a due velocità, ci sono quelli elegiaci degli anziani, che compiono dei gesti che ricordano vividamente quelli dei più giovani, ma più posati e ragionati, distesi e privi d’urgenza. Poi ci sono gli adulti, i più drammatici nelle composizioni, che vedono corpi cadere in mezzo a decine di braccia, oppure copri alzarsi al cielo, portati in giubilo, come in una laica domenica delle palme. L’inclusione, la solidarietà, la comunità, tutti concetti che vengono espressi con una vitalità trascinante. I danzatori cadono, ma vengono rialzati, strisciano ma vengono rialzati, non sono mai lasciati da soli, non sono mai isolati. Ognuno di loro è diverso, indossa vestiti da colori diversi, hanno delle età molto diverse fa loro, gli anziani non possono mettersi a quattro zampe, le donne incinta non possono lanciarsi in una corsa a perdifiato, ma proprio come ne Il quarto stato, c’è qualcuno che lo farà anche per loro, l’importante è stare uniti, coesi. La forza deflagrante di questa unione era palpabile tra il pubblico pistoiese, rapito dalla bellezza di tale fiumana, quasi come se appartenesse ad un altro tempo o ad un altro luogo. Ed invece era proprio lì, davanti a noi, a mostrarci che tutto è possibile se invece di dividerci ci sorreggiamo a vicenda.
Giuseppe Di Lorenzo
SCOPPIA UN NUOVO CASO DI FEBBRE “MOSCHETTIERA”
D’Artagnan e I Sacchi di Sabbia scoprono l’America degli anni 30
«Tutti per uno, uno per tutti!» è la sintesi esemplare con cui la letteratura riesce a svelare il cuore di storie vere. È il celebre motto conosciuto da grandi e piccini, quello dei moschettieri del re di Francia Luigi XIII, partorito dalla penna di Alexandre Dumas (padre) nel celebre romanzo d’appendice I tre moschettieri (1844). Lo abbiamo letto sui libri, sentito alla radio, alla televisione, al cinema e ora anche in teatro. Capitanata da Giovanni Guerrieri, la compagnia I Sacchi di Sabbia crea una nuova puntata di quella che negli anni Trenta fu considerata in Italia la prima rivista radiofonica di grande successo: I 4 moschettieri. Lo sceneggiato, creato da due giovani piemontesi quali Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, musiche di Egidio Storaci, è andato in onda dal 1934 al 1937. Su invito di Santarcangelo 2014, all’interno del progetto “Radio Days”, la compagnia toscana I Sacchi di Sabbia realizza per Radio 3 un sequel de I 4 moschettieri, dedicato proprio a Nizza e Morbelli. In seguito, nel 2015, da un’idea di Rodolfo Sacchettini e Giovanni Guerrieri, nasce da questa esperienza un radiodramma animato, uno spettacolo teatrale portato in scena in tre puntate in occasione del progetto “Infanzia e città”: I 4 moschettieri in America. Oggi, in occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017, con la collaborazione dell’Associazione Teatrale Pistoiese, I Sacchi di Sabbia ripropone all’interno del Pistoia Teatro Festival la “febbre moschettiera” che ha contagiato l’Italia degli anni Trenta, e ci restituisce in chiave moderna il prezioso gioco sonoro che tanto ha affascinato i primi ascoltatori del mezzo radiofonico, mescolando diversi linguaggi all’interno della macchina scenica: recitazione, illustrazioni, musica, canto, effetti sonori rumoristici tipici del radiodramma e persino il teatro di figura e il teatro delle ombre, in un pastiche che si avvale di numerose contaminazioni.
Ph. Michelle Davis
Tre gli attori in scena, proprio come i moschettieri, che poi sono quattro, come dice uno dei personaggi durante lo spettacolo. E quattro sono, in effetti, le figure che animano I 4 moschettieri in America. Giovanni Guerrieri, dotato di cappa e spada, è l’unico moschettiere in carne e ossa. Interpreta il personaggio di Athos e interagisce con i suoi compagni interloquendo con voci off dalla natura marcatamente fumettistica. Ha un accento francese che, come precisa più volte, sta perdendo da quando si è trasferito negli States. Giulia Solano e Giulia Gallo raccontano gli antefatti, in abiti neri e vagamente formali vestono i panni del narratore. L’una tiene il tempo con una cadenzata modulazione verbale, mentre l’altra canta le vicende della storia sulle note già utilizzate nella trasmissione originale. Entrambe asettiche e impassibili incrementano in questo modo l’effetto parodistico della loro funzione scenica. Guido Bartoli disegna in tempo reale, dà vita ai personaggi di cui sentiamo solo le voci e insieme ai tre attori vivacizza la scenografia in una commistione di teatro e fumetto, come se si trattasse della rappresentazione di una graphic novel. Tutti fanno tutto, ora animano la scenografia mobile costituita da pannelli di legno che, da cornici per le tele di cartone su cui si disegnano personaggi e paesaggi, si trasformano in porte utilizzate dai protagonisti per sfuggire ai loro inseguitori; ora incarnano gli stessi protagonisti della vicenda, indossando all’occorrenza maschere e costumi sagomati su cui sono ritratti i corpi e i volti dei vari personaggi; ora, attraverso l’uso di torce e piccole silhouette, proiettano ombre sulla scena e persino in platea, sul soffitto del teatro, creando il dinamismo di inseguimenti e combattimenti evocato dall’incalzare della musica e delle voci registrate; ora sfogliano i grandi album interattivi che contribuiscono allo sviluppo dell’arco narrativo, mostrando al pubblico i luoghi visitati dai moschettieri.
Ph. Michelle Davis
Questi libri, infatti, vengono sfogliati in modi sempre diversi, seguendo ordini nuovi a seconda della loro funzione: permettono di far correre i quattro moschettieri, piccole sagome attaccate a delle molle dinnanzi uno sfondo che scorre attraverso un rullo, o di farli scomparire dietro porte di carta che si aprono davvero tra le pagine del libro. Così mentre Guerrieri incarna il ruolo del protagonista, gli altri si trasformano nei tipici kōken del Teatro Nō giapponese, quelle figure vestite di nero che si annullano totalmente, che spariscono alla vista del pubblico pur restando in scena. Noi non li vediamo più, concentrati e affascinati da come quei libri prendono vita sotto i nostri occhi di bambini. Così lo spettacolo non diverte soltanto i più piccoli, ma anche gli adulti sembrano seguire con piacere le avventure americane degli eroi di Dumas.
Nelle trasmissioni di Nizza e Morbelli i moschettieri girano il mondo, ma I Sacchi di Sabbia si focalizzano sul loro viaggio in America. Nello spettacolo di Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo, con la collaborazione di Giulia Solano, i protagonisti rifuggono dalla realtà, così carica di bisogni, «perché non ci si difende a colpi di spada dai tormenti dell’anima». Cercano di fare carriera nel cinema, ma persino l’impresario di Broadway dall’accento torinese, un disegno che appare su un foglio, li rifiuta sprezzante. «Così, avvezzi solo alla pugna e al periglio, i quattro moschettieri si ritrovano pronti alla supplica e all’umiliazione pur di veder mutate in spettacolo le loro vite». Non più amati come un tempo, con le spade ormai troppo arrugginite per essere estratte rapidamente dai foderi, in un mondo che non ha più bisogno di eroi, i moschettieri cercano invano di togliersi la vita. Dopo una serie di tentativi miseramente falliti decidono di contattare l’italoamericano Nick Amitrano, un boss della malavita, per assoldare dei sicari in grado di far loro la festa. Ben presto però qualcosa cambia, il cinema li nota, la Paramount li ingaggia, e si fa largo il desiderio di recuperare la fama ormai perduta. Al grido di «Io voglio vivere!» sterminano a suon di spada i sicari e i loro mitra. Da qui in avanti si darà vita a una serie di inseguimenti rocamboleschi per le strade di New York, tra polizia, criminalità organizzata e gli stessi moschettieri, di cui noi sentiamo solo gli effetti sonori, la musica galoppante, i passi di corsa, le sirene spiegate, le voci dei personaggi, mentre la scena si anima con le ombre dei protagonisti proiettate tutt’intorno allo spazio, persino in platea.
I Sacchi di Sabbia lavorano su topoi consolidati, trovando il modo di straniarli in senso comico e rimanendo sempre in bilico tra recitazione, arte visiva, canto, teatro delle ombre. Il finale dello spettacolo però rimane sospeso, e nello spettatore resta il forte desiderio di scoprire cosa accadrà nella prossima puntata.
Marzio Badalì
(visto il 24 giugno 2017)
“Fregio” di Virgilio Sieni, il dono di essere umani
Quando il contatto con l’altro diventa dono, si va ben oltre la misericordia, e l’incontro tra esseri umani si trasforma in un’opera d’arte necessaria. Virgilio Sieni questa volta ci parla dell’importanza della condivisione di uno spazio comune, delle nostre emozioni e fragilità, di noi. Fregio, percorso attraverso 4 azioni coreografiche in 3 luoghi interpretate da cittadini e danzatori, fa parte del progetto “Cantieri del gesto_Pistoia 2017”, nato in occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura e del Pistoia Teatro Festival, che ha previsto inoltre la performance Cammino Popolare, a cui tutti i cittadini sono stati invitati a prendere parte. Sieni si lascia ispirare dalle Sette opere di Misericordia raffigurate nel cinquecentesco Fregio robbiano dello Spedale del Ceppo, ma articola le sue coreografie all’interno di altri luoghi simbolo della città, spazi con una storia riscoperti da occhi nuovi, che ci parlano attraverso il contatto e la vicinanza delle persone che li abitano, senza distinzione di genere, età, provenienza.
Il percorso inizia nella settecentesca Biblioteca Fabroniana, dove cinque donne over 60 si mettono in gioco per scoprire, e quindi mostrarci, un modo diverso di utilizzare il corpo. Con sonorità che ricordano campane tibetane, illuminate dalla luce proveniente dall’ampia vetrata della sala antistante la biblioteca, richiamano, grazie a un lenzuolo bianco accartocciato che evoca il marmo delle statue, i due gruppi scultorei di Agostino Cornacchini, La Natività e La Deposizione dalla croce, posizionati ai lati della porta che conduce alla stanza dei libri. La loro evoluzione è lenta, pacata, meditativa, in perfetta sintonia con un corpo non più giovane. Questo è un viaggio a ritroso, poiché ad attenderci oltre quella porta ci sono ragazzine e bambine in grado di plasmare in silenzio figure plastiche e dinamiche. Reiterano movimenti, creando un continuum di variazioni e un’incessante proliferazione di figure e sostegni.
Quando è ora di proseguire si abbandona la biblioteca in favore di Palazzo Fabroni, dalle origini trecentesche e ora centro di arti visive contemporanee, dove in una stanza espositiva dalla luce fioca troviamo schierate altre giovanissime ragazze che evocano la misericordia nell’abbandono e nell’incontro, il senso di una comunità che sorregge e sostiene. La danza allora diventa uno studio sulle modalità e i gradi di relazione con l’altro, le possibilità spaziali e relazionali di un corpo in un luogo che non è teatrale in senso canonico ma che diventa scena e protagonista al tempo stesso. Un corpo dapprima singolo, poi reso molteplice dalla mescolanza con gli altri, fino a trasformarsi in comunità.
L’ultima tappa di questo viaggio, che prevede lo spostamento del pubblico tra le vie della città, è sulla Terrazza Grandonio del settecentesco Palazzo De’ Rossi, illuminata principalmente dalla luce del sole che tramonta su Pistoia. Il cielo si riempie di colori e diventa la scenografia di quest’ultimo quadro in cui, per la prima volta dall’inizio della rappresentazione, alle figure femminili si affiancano presenze maschili, accompagnate nella danza da suggestive dissonanze elettroniche eseguite dal vivo dalla chitarra di Roberto Cecchetto. Si crea dunque un affresco sulle qualità del corpo, ricercato attraverso il senso della fragilità, del frammento e dell’articolazione. Le mani sono in continuo contatto con i corpi degli altri, sostengono, sfiorano, si poggiano su una spalla o dietro la schiena, sussurrano “io ci sono”, in una danza in cui le braccia si intrecciano e le gambe vengono sorrette, spostate, direzionate; le teste accompagnate nella caduta. All’interno di questo mondo perfetto nessuno cade da solo, nessuno si alza da solo. C’è sempre una mano pronta ad aiutare, a risollevare il compagno caduto.
I danzatori hanno età diverse, corpi diversi – danza persino una donna incinta – vestono abiti semplici, leggeri, di colori differenti, che in parte richiamano quelli del Fregio di Giovanni della Robbia. Si incontrano, si sfiorano, si sorreggono, si supportano, si aiutano, si respirano ed entrano in contatto tra loro. È uno scambio reciproco, chi sostiene è a sua volta sostenuto. Virgilio Sieni dipinge un itinerario in cui tramite il gesto avviene uno scambio sociale, un dono, inteso come atto di generosità che restituisce allo spazio cittadino un ampio senso di apertura e condivisione. Gli interpreti costruiscono attraverso la memoria di gesti pittorici un’architettura umana che getta le fondamenta per la creazione e il rispetto di un luogo comune; la vicinanza e la tattilità sono alla base di questa struttura coreografica che incarna i principi di una vera democrazia e instaura così una relazione tra cittadino e bene comune. Il corpo diviene il tema per abitare il mondo attraverso la consapevolezza di sé e dell’altro, del luogo in cui si vive.
Tranne che nell’ultimo quadro, ampio, a campo lungo, il pubblico si trova sempre schierato in due falangi, una di fronte all’altra, e attraverso i performer sembra quasi di guardarsi allo specchio. La sensazione che ne deriva è di profonda incompletezza, e allora non basta più partecipare a un tale rito come spettatori passivi, ma nasce il desiderio di diventare parte attiva di questo percorso, di entrare anche noi in contatto con gli altri.
Marzio Badalì
(visto il 23 giugno 2017)
La rivoluzione è facile se sei cinico, disinvolto e incredibilmente fortunato
Il ritratto dei giovani Kepler-452 tra risate e Sgomento
Crisi esistenziale post-laurea vs realtà
«Tu, allora, che avresti fatto?» è l’interrogativo che resta frustrato come le ambizioni degli interpreti de La rivoluzione è facile se sai come farla e comuni a un’intera generazione, quella degli attuali venti/trentenni.
Proprio il trentacinquenne Quit the doner, pseudonimo di Daniele Rielli, poteva descrivere e tratteggiare le storie dei due protagonisti con il linguaggio e i riferimenti socio-culturali dei coetanei, i cui disattesi sogni carrieristici e professionali sono messi in scena dalla compagnia Kepler-452 e interpretati da Nicola Borghesi e Paola Aiello.
Lui, aspirante scrittore, in cerca della pubblicazione del suo romanzo L’inderogabile altitudine della rivoluzione trova la concorrenza di Sgomento, opera ultima di Paterno Rondone, che è tutto e il contrario di tutto. Lei, sceneggiatrice in erba, si scontra con il mondo delle raccomandazioni e dell’anzianità, in cui emergere dall’anonimo sostrato bolognese è assai difficile.
Foto di Michelle Davis
Sotto la regia di Nicola Borghesi, il racconto si articola in piccoli quadri di narrazione giustapposti e alternati tra i due attori, in mezzo ai quali interviene Lodo Guenzi, nei panni di un declamatore delle pagine inedite, di editor cinico e rispondente alle leggi di mercato e di un direttore teatrale disincantato. Sulle musiche de Lo Stato Sociale, non dal vivo al contrario di quanto l’allestimento da concerto può far pensare, si snodano in una sequenza frammentata e rapsodica i fallimenti e le speranze di successo quotidianamente frustrati, comuni a tutti i venti trenta (nome del Festival a cui Nicola Borghesi ha dato vita nel 2014), ovvero alla generazione new cultural che tra una «birretta sul Pratello» e un altro episodio di Breaking bad insegue tra attacchi di panico e terapie del lunedì il proprio sogno di sfondare, di brillare, di distinguersi dalla massa.
La voglia di emergere è trasmessa a 360° dalla gestualità che subentra a supporto della parola e delle emozioni, infatti gli attori si muovono, corrono, si siedono e saltano sopra e intorno alle casse di plastica gialla che popolano il palco, adattandosi ai contesti formali e informali nei racconti che si susseguono.
Ma questi «bambini speciali» cresciuti a sogni e competenze, come in un raptus di sincerità urla l’editor milanese, giocoforza cozzano con una realtà atrocemente cinica, in cui disincanto artistico e politiche economiche portano alla progressiva accettazione del conformismo e alla temuta scesa a compromessi pur di fare qualcosa, rappresentata dal posto all’anagrafe comunale in cui lavora il babbo. I due protagonisti, infatti, non hanno il manuale d’istruzioni per fare una rivoluzione, per sconvolgere drasticamente i rapporti di forza che li soggiogano, ma, in fondo, “rivoluzione” altro non indica che un giro, un viaggio circolare alla fine del quale si torna al punto di partenza.
Kepler-452 fa un ritratto schietto e sincero della propria generazione, parlando a questa con i codici linguistici e comportamentali che la contraddistinguono. In ciò probabilmente si potrebbe ravvisare il limite più grande dello spettacolo, ovvero potrebbero non essere del tutto accessibili i suoi contenuti a coloro che non si rispecchiano in quel target d’età, ormai assuefatti ad altre logiche e obbedienti a diverse priorità. Ma chi d’altra parte vive anche marginalmente questo spaccato sociale, può partecipare emotivamente alle vicende, nei suoi tratti espressivi, talvolta pittoreschi.
A chi di quella generazione invece fa parte la narrazione non lascia nuove esperienze, perlopiù l’autoconsolazione di aver condiviso ciascuno nella propria vita in misura più o meno variabile l’ansia sociale dell’ingresso nel mondo del lavoro, da cui scaturisce in risate amare il “mezzo gaudio” proverbiale. Non manca, però, l’autocritica, scioccante e urlata dall’editor milanese Passalacqua, che sbatte in faccia all’aspirante scrittore tutte le sue velleità in un lungo monologo pieno di quella onestà, che per convenzione sociale viene spesso taciuta e dissimulata.
L’ingenua ambizione generazionale e l’autocommiserazione messe in scena danno allo spettacolo una patina di autoconsolazione, a tratti apologetica, con un sotteso invito allo sconvolgimento della propria vita rappresentato dallo strenuo esercizio di convincimento che il posto fisso non sia un compromesso ma un’opportunità, mentre diventano un’iniezione di autostima per i venti/trentenni che nonostante tutto ce l’hanno fatta.
a cura di Glenda Giacomelli
Il nuovo teatro: ieri, oggi e domani. Cronaca del convegno
Non un convegno ma un «modo per condividere insieme delle inquietudini». Con queste parole il presidente Rodolfo Sacchettini ha introdotto la giornata di incontro Il nuovo teatro: ieri, oggi e domani, che si è svolta il 22 giugno presso il Piccolo Teatro Mauro Bolognini. Dopo una intensa mattinata in cui sono stati presentati e commentati alcuni materiali video inediti (fra gli altri frammenti da Le 120 giornate di Sodoma di Vasilicò, Crollo Nervoso dei Magazzini Criminali, Ensemble de La Gaia Scienza, introdotti da Fabrizio Crisafulli, Gabriele Rizza e Paolo Bologna), nel pomeriggio si sono alternate alcune voci legate alla critica teatrale odierna, in cerca di possibili punti di continuità e rottura con le domande e tensioni degli anni 70 teatrali. L’occasione sullo sfondo è la recente uscita del volume Cento storie sul filo della memoria, edito da Titivillus e curato da Enzo Gualtiero Bargiacchi e dallo stesso Sacchettini, oltre cento testimonianze raccolte in parte grazie a un convegno pistoiese organizzato nel 2014. In questo resoconto ci concentreremo sugli interventi del pomeriggio.
È Sacchettini ad aprire, come dicevamo, annotando che a volte per fare la storia non è sufficiente operare in senso genealogico; anche per questo si è scelto di invitare figure di testimoni di generazioni diverse, con una particolare attenzione ad alcune delle riviste nate negli ultimi dieci anni, accomunate dalla scelta di avere fondato dei “gruppi critici”.
L’apertura dei lavori vede un intervento di Ilaria Fabbri, dirigente al settore spettacolo della Regione Toscana e membro della Commissione Consultiva prosa al Mibact. Nel ricostruire il clima degli anni ’70 la Fabbri rimarca una tensione collettiva con punte di contrapposizione verso le istituzioni che oggi si è persa. Oggi si tende a blandire un consenso e non è raro trovare istituzioni prospetticamente più lungimiranti degli stessi operatori dello spettacolo. La Fabbri segnala il ruolo necessario delle istituzioni nel riconoscere il nuovo per dargli forza, invitando a evitare la trappola di chi vede solo la decadenza del teatro odierno. Il nuovo esiste, non si sa bene dove emerga, ma è ancora possibile incontrarlo. Invita infine a recuperare un afflato solidaristico anche tra artisti, afflato che dagli anni ’70 a oggi si è un po’ disperso nelle urgenze di sopravvivenza individuali.
Renato Palazzi, decano della critica teatrale italiana e penna del Sole 24 ore parte dicendo che dopo la caccia al nuovo degli anni passati la sensazione è che oggi l’ondata di novità si sia esaurita. Siamo di fronte a una normalizzazione, a volte dovuta a crisi creative che hanno portato anche all’estinzione di alcuni gruppi. Sono mancati o sono stati rarissimi i momenti di apprendimento intergenerazionale (per esempio la Celestina di Ronconi con Licia Lanera). Eppure va detto che il teatro degli anni zero ha creato un pubblico a sua immagine, mentre gli anni ’70 sembrano avere lasciato meno tracce. Quella degli anni zero è stata una generazione che ha dato una spallata definitiva alla rappresentazione, all’interpretazione attoriale strettamente intesa, dando forza a una nuova idea di soggettività attoriale. Dice Palazzi che si è parlato di post-drammatico, forse si deve parlare di post-teatrale, anche se i gruppi europei a suo dire sono «una ventina di anni avanti rispetto alla scena italiana» (si pensi a Rimini Protokoll, Agrupacion Senor Serrano, El Conde de Torrefiel, Berlin).
Andrea Nanni, critico, studioso, organizzatore riprende il dicorso tornando al primo dopoguerra e alla vicenda tutta italiana della nascita della regia. Parla di Luchino Visconti, in un sistema produttivo aristocratico che tuttavia ha posto certe basi ancora oggi valide. Le sue innovazioni, oltre che riflettersi sugli attori (per la prima volta invitati a imparare tutto il testo a memoria) impattavano ovviamente anche sui costi e sulle modalità di lavoro; la produzione poteva arrivare a durare anche 30 giorni. In quel periodo in cui si potevano ancora sovrapporre i piani del teatro dell’attore e del grande teatro d’autore. Secondo Nanni un problema tutto italiano è il doversi rapportare a invenzioni e accensioni innovative che poi vengono dimenticate, non si capitalizzano, come se si dovesse sempre ricominciare da zero. Dopo alcune “fiammate” le innovazioni si disperdono, spesso con le generazioni che le hanno prodotte. È vero che a volte sono le istituzioni a essere più innovative degli stessi operatori dello spettacolo, infatti alcuni segnali positivi istituzionali (anche come effetto del DM 1 luglio 2014) si sono visti, mentre sono gli artisti a essere in difficoltà, sono stati messi a dura prova da tutto quello che è accaduto sulla loro pelle negli anni passati. Speriamo che possano riprendere fiato, conclude Nanni.
Graziano Graziani, scrittore, critico, fra le altre cose voce di Radio Tre Rai inizia ricordando Simone Carella, regista sperimentale e grande agitatore culturale della Roma delle cantine. Pur riconoscendolo quale punto di riferimento, ritiene che sia la generazione Novanta il luogo dove guardare per capire il passaggio dalla temperie post drammatica al presente. Il concetto di “scrittura scenica” non ha espulso il testo dalla drammaturgia, ma l’ha ridotto a uno dei tanti elementi. L’effetto è riconsiderare la drammaturgia in senso più ampio: il ritmo del racconto, lo svelamento, il montaggio. Tutto questo si ricollega anche al postmoderno in letteratura. Continua definendo gli anni ’90 come l’ultimo momento in cui dominava una retorica basata sull’assunto che tutte le ricerche estetiche dovessero “superare” le precedenti. Una dialettica marxista hegeliana dove non c’è nulla di interessante a cantare ciò che è già stato cantato. Ora è diverso: uscendo da un secolo iconoclasta, la generazione attuale si pone il problema di cosa riassemblare. Non è chiaro agli artisti, non è chiaro al pubblico.
Lorenzo Donati, critico per Altre Velocità, pone al convegno il problema del luogo. «Dove il teatro non ha presa?» In questo momento storico dove le compagnie fanno fatica e sono inclini a dissolversi in poco tempo, la soluzione per Donati non è da cercare nelle relazioni produttive tradizionali, ma nel tentativo di dare forza a realtà auto-organizzate, come è accaduto con una certa regolarità negli anni ’90 e nei 2000. Fra gli esempi di «frammenti di contro-cultura» il critico cita l’esperienza di Teatro Sotterraneo e il loro tentativo di narrazione della precarietà nella rivista pdf “Sub”. Anche la parola “contro-cultura” sembra però ingabbiare le giovani realtà con concetti del passato, legati ad una stagione artistica lontana generazioni che fiorì in un contesto sociale-economico completamente diverso dal nostro. In quest’ottica Donati suggerisce di porre la massima attenzione ai quei luoghi, quegli spazi, dove possano nascere delle nuove tensioni che provano a rispondere alla domanda prima introdotta: «Dove il teatro oggi non ha presa?». Improbabile che la tensione degli anni ’70 oggi si riproponga, le scene contemporanee sono isole, e tendono ad esaurirsi in un attimo, eppure la questione qui accennata può creare dei frammenti di discorsi non allineati, controculturali appunto.
Francesca Serrazanetti, della rivista Stratagemmi Prospettive Teatrali discute di come lo spazio teatrale sia una delle realtà che conservano ancora i segni marcati delle avanguardie degli anni Sessanta/Settanta. L’eredità maggiore è la fuga dall’edificio ufficiale, deputato allo svolgersi del fatto teatrale: «Ci siamo abituati ad andare a teatro senza il teatro» afferma. La sperimentazione avviene allora ovunque vi sia la possibilità di mettere insieme artisti e un potenziale pubblico. Cita dunque quei «luoghi terzi» denominati dal sociologo americano Ray Oldenburg nel suo libro The Great Good Place (1989), intendendo con ciò lo spostamento del teatro in mezzi di trasporto, in giardini, nei caffè, nei mercati e così via. Questo dà vita a due modalità di fruizione da parte del pubblico: quella “di massa”, che solitamente si realizza in spazi aperti, e quella “intimistica” che avviene in spazi chiusi, poco capienti e destinata a un pubblico ristretto di numero; negli ultimi anni abbiamo assistito a spettacoli per uno spettatore alla volta.
Alessandro Iachino di Teatro & Critica interviene riflettendo sulla componente biografica che entra in campo in ogni sguardo. Si guarda un fatto teatrale e lo si influenza guardandolo. Uno sguardo puro non esiste, rimarca Iachino, portando alcuni esempi della scena teatrale e di danza recenti in cui gli spettatori sono chiamati in diverse forme a “partecipare” (le interviste de Gli Omini, lo sguardo peripatetico in Family di Virgilio Sieni ecc). Uno sguardo che partecipa è dunque uno sguardo politico, secondo Iachino, il cui intervento si chiude con una domanda. Ci sono molti progetti che chiedono agli spettatori di fare qualcosa oltre lo sguardo, chiedono di diventare organizzatori e direttori artistici. È ancora legittimo “solo” guardare, dunque, se poi dopo lo sguardo si deve sempre “fare”?
Chiude la giornata un denso intervento di Roberta Ferraresi, critica teatrale per Il Tamburo di Kattrin e membro della Commissione Consultiva Prosa Mibact. Non stiamo malissimo, dice Ferraresi, il quadro di normalizzazione segnalato da molti va comunque contestualizzato all’interno di una più generale temperie di chiusura di spazi di discussione politica (l’isolamento dei movimenti dopo Genova 2001, la crisi dell’associazionismo, la marginalizzazione di ogni tensione di contestazione ecc). La generazione di teatranti trentenni è in crisi, oggi? Probabilmente la condizione attuale è semplicemente “normale”, mentre l’iperproduzione alla quale ci hanno abituato gli anni daò 2005 al 2010 va ripensata come eccezionale.
Ferraresi riprende alcune delle asserzioni della giornata, quando sostiene che in realtà una delle grandi eredità degli anni ’70 è da rintracciarsi ancora oggi nell’invito a ripensare costantemente il valore d’uso del teatro, a mettere in discussione il suo senso profondo. Nei ’70 si è arrivati a parlare di “teatro senza spettacolo”, ci si è rinchiusi in conventicole, si è spostato il teatro nella pedagogia. Se oggi siamo tutti alla ricerca di pubblici diversi, se ci domandiamo come “aprire” il teatro dobbiamo ricordarci che queste tensioni sono possibili grazie alle ricerche di chi ci ha preceduto, noi veniamo da lì.
Al convegno di Ivrea nel 1967 si rimarcava la necessità di adeguare gli strumenti critici ai linguaggi teatrali del presente. Negli anni zero, in nome di una polifonia e di una fuga dalla normatività, la critica ha forse abdicato alla sua naturale tensione a dare i nomi alle cose (a movimenti, gruppi, estetiche). Così ci ha pensato il mercato. Allo stesso modo, ascoltando i resoconti dei protagonisti degli anni ’70 ci si accorge di una vicinanza fra critica e artisti molto netta. Oggi forse la critica si sta spostando avvicinandosi più al pubblico e allontanandosi dagli artisti.
La chiusura dell’intervento della studiosa è un monito a non dare per acquisite certe conquiste, anche dal punto di vista estetico. Tutto può sempre tornare indietro, tutto quindi va sempre difeso.
A cura di Giornalisti di Confine
VI RACCONTO “GRAN GLASSÉ”: GLI OMINI ALLA FORTEZZA SANTA BARBARA.
Cronaca di una serata alla Fortezza Santa Barbara. Gran Glassé: convincente mix tra la comicità de Gli Omini e i frizzanti momenti musicali del complesso eXtraLiscio.
Nell’aura cinquecentesca della Fortezza Santa Barbara, su un semplice palco con delle gigantesche mutande sullo sfondo, Gli Omini si esibiscono accompagnati dal gruppo musicale eXtraLiscio. Gran Glassé, un misto di varieté, Gran Galà e “un fortuito ritrovamento di quaranta scatole di marron glassé” – per usare le parole della compagnia stessa. La voce di un narratore conduce lo spettacolo presentando ora i musicisti e i cantanti, ora i tre attori che, rispettivamente davanti a tre leggii, si immedesimano in molteplici personaggi. Gli attori portano sulla scena situazioni, momenti, attimi rubati nei loro tour attraverso l’Italia, creando una vera e propria summa delle esperienze cui hanno lavorato negli ultimi dieci anni. I nostri tre protagonisti indossano le vesti di individui desunti dalla realtà quotidiana, spesso da quella più realistica e bizzarra, donde emergono veri tipi umani, immersi in variopinte e comiche esperienze. Le scenette sono scandite in più sezioni a tema, in ognuna delle quali viene affrontata una specifica situazione o condizione umana: come tre uomini si comportano alla stazione, come giudicano il proprio lavoro, come vivono una vita di coppia; scenette nelle quali ogni spettatore rivede inevitabilmente se stesso, i propri famigliari e coetanei, insomma, la realtà che ogni giorno tocca con mano. E i tipi sulla scena rivelano al proprio pubblico una verità da loro ormai accertata, colorata e arricchita da una leggera vis comica, che si ritrova soprattutto nel loro espressionistico intercalare, nelle loro bizzarre esperienze, talvolta in qualche termine triviale scagliato tra una parola e l’altra.
Ph. Michelle Davis
Accomuna, però, tutte quante le scenette il tono piuttosto rassegnato alle verità di cui i personaggi hanno preso atto: la vecchia zitella, il lavoratore sconsolato, il giovane poetastro, l’amato respinto, non hanno niente di titanico nei confronti di una realtà screpolata, bensì confessano palesemente la loro attuale condizione come fissa e immutabile, senza prospettiva alcuna di cambiamento. Le loro avventure restano immobili e cristallizzate, suscitano una fuggevole risata, ma permettono al pubblico un’attenta riflessione. Chi non vorrebbe barattare il proprio lavoro con qualsiasi altra cosa? Chi non è compreso e ascoltato dai propri amici? Chi non è mai stato accusato dalla propria amata di avere un carattere impossibile? Realtà percorse da problemi del quotidiano che la vita apparecchia bene o male a tutti, vengono calate in una dimensione di spettacolo di varietà, affrontate dalla compagnia senza sottolinearne il disagio, anzi esiliando del tutto dalla scena le note dolorose, per lasciare spazio ai frangenti umoristici evidenziandone le circostanze più buffe. Questa la grande peculiarità de Gli Omini: far brillare di luce comica le situazioni problematiche in cui l’uomo viene sballottato durante il corso della propria esistenza, far emergere quanto può esserci di faceto nel serio, riuscire a trovare il riso anche nell’amarezza della routine. I tipi umani che esplodono sulla scena siamo proprio noi: intrappolati nella difficoltosa tela delle relazioni sociali, gettati in un mondo complesso e mutevole, imbrigliati nell’arduo compito di scalare la montagna che occupa il nostro io interiore. Forma recitativa prediletta dalla compagnia è, per l’appunto, il monologo, attraverso cui prende forma la persona che sta narrando la propria vicenda insieme al suo punto di vista; in alcune sezioni, come ne “la coppia”, è invece preferita la forma del dialogo, ovviamente intessuto fra i due coniugi, nell’ordine di mostrare il loro rapporto spesso critico, conflittuale e provocatorio. La vera forza comica si sprigiona nella mimesi linguistica dei dialetti italiani, per mezzo dei quali gli attori cuciono i discorsi con grande perizia: dominano la scena il fiorentino sboccato, il romano col suo lessico gastronomico, la pistoiese accusatrice, il milanese logorroico, grazie ai quali il vero protagonista è l’idioma linguistico. Tuttavia, pur restando fissi davanti ai loro leggii, i tre attori riescono ad animare la scena grazie al loro frenetico gesticolare, ai movimenti congiunti alle parole, alla vivace esasperazione di ciascun gergo.
Ph. Michelle Davis
Ma ecco che, accanto a tali siparietti, si attiva la seconda grande componente del Grand Glassé, ovvero la musica degli eXtraLiscio, che Gli Omini hanno incontrato il giorno stesso dello spettacolo, sperimentando, per la prima volta e in diretta, una collaborazione con altri artisti. Anche le canzoni degli eXtraLiscio raccontano frammenti di vita, spaziando nel repertorio del liscio italiano e legandosi strettamente alle parti recitate: con un Cha cha cha d’amor e un’atmosfera da balera, i loro pezzi si inseriscono fra una scenetta e l’altra senza soluzione di continuità, creando uno spettacolo varieté commisto di recitato e musicato, due elementi che mai risultano l’uno avulso dall’altro. Ma qui i protagonisti della musica sono ora un coinvolgente cantante di liscio, ora un elegante gentiluomo con la sua sensuale partner in scena, i quali richiamano una sofisticata serata da Gran Galà. Recitazione e musica, serio e comico, spensieratezza e malinconia, realtà e finzione, questi sono gli ingredienti del Gran Glassé che, nel loro intento di restituire il grande affresco del brulichio della vita quotidiana, riescono a forgiare tipi umani comici, umoristici, ma mai banali, sempre costretti ad agire in situazioni che accomunano, nel bene o nel male, ciascuno di noi.
Mirco Innocenti
Io non sono un grande attore. Intervista impossibile a Gali, il levriero de “L’arte del teatro”
Siamo entrati in un appartamento che sembra a prima vista normale. Periferia, negli odori, nei i suoni. Sulle finestre ci sono i segni di vecchi addobbi natalizi, riusati ogni anno da decenni. L’intervistato ci guarda indifferente, da quando ci ha fatto entrare non ha detto una parola. Mentre ci sistemiamo per l’intervista nemmeno ci annusa, non si gratta, ogni tanto si alza e mangia qualcosa dalla sua ciotola. È il coprotagonista de L’arte del teatro, di Pascal Rambert, un levriero russo.
Cominciamo l’intervista con un’ora di ritardo, Gali si stava rotolando sul suo tappeto preferito (ci dicono essere abitudinario).
La sala ha fatto un bel po’ di rumore durante la pièce, ma né lei né Musio avete reagito in alcun modo. Vi ha dato fastidio?
No. Non vedo perché, poi, dovrebbe darci fastidio [Si gratta l’orecchio destro]. La scena deve respirare la stessa aria dell’ambiente, è normale. Proprio come non sai cosa potrebbe fare un attore in scena è altrettanto vero che l’attore non sa come si comporterà il pubblico. Pensa poi un cane! Potrei mordere il sedere di qualcuno in qualsiasi momento! Sto scherzando ovviamente. La verità è che il pubblico non è più abituato alla realtà ma si è assuefatto alla rappresentazione. So che sembra una roba uscita fuori da un saggio di Galimberti, un filosofo cane, ma è così. Una pièce come la nostra vuole che il pubblico reagisca, anche la recitazione infatti cangia, di poco, a ogni replica, perché è viva e vegeta, e reagisce agli stimoli, alle punzecchiature sul suo flaccido corpo.
Non aveva paura che qualcuno potesse passargli le pulci? O che magari credessero che lei le avesse…
Quando vado a teatro, come al cinema o in discoteca, porto sempre il collare anti-pulci. So che alcuni della mia età non lo fanno, ma credo sia importante sopratutto per i giovani, come esempio. Il pubblico può pensare quello che vuole, ma ogni volta che vado in scena il mio pelo è più lucido che mai. Le luci del palcoscenico mi amano.
L’uso smodato di anafore lascia nello spettatore una serie di immagini piuttosto vivide, tra cui l’attore fatto di sangue, lacrime e sperma.
[Gali annusa col viso contrito il padrone, produce un borbottio e poi riprende:] In realtà l’attore è prima di tutto nervi. Scatta, corre, e poi d’improvviso si spegne con un soffio. Anch’io ero così da giovane, ogni tanto qualcuno tirava un bastone e io mi lanciavo a prenderlo! Ora aspetto che me lo riportino loro. L’attore è viscere, sperma e lacrime perché è reale. La gente reagisce alla realtà, ne è sconcertata, non crede ci sia posto per questa a teatro. Amleto tiene sulla sua mano un teschio finto e riflette sulla morte, in pratica è come se io tenessi un osso di plastica per ragionare sulla fame nel mondo. Il grande attore non rappresenta, non si lascia sopraffare dalla parola, dal personaggio. Il personaggio è lui, non viceversa.
Eppure l’attore che vediamo in scena con voi sembra sfinito. È trasandato, rancoroso.
Perché ha vissuto l’illusione che quella spinta (di natura principalmente pelvica) l’avrebbe trascinato per sempre, una forza inerziale che non si poteva estinguere. Ed invece s’è estinta eccome, o almeno quasi. Quando si è giovani il fuoco degli ormoni brucia ogni neurone, ti metti a scodinzolare anche per quella strana della classe [Gli scappa un abbaio dal suono nostalgico]. Un tempo gli bastava sussurrare qualcosa dal palco per avere tutte le ragazze che desiderava, trascinandole oltre il proscenio, nella sua dimensione. Ma si è accorto che quello che le attirava, e la dimensione dove le portava, non era la realtà ma bensì la rappresentazione.
Insomma: sebbene lo sforzo la vita e la recitazione sono due cose troppo diverse.
Lo dice anche il testo, no? «La vita per quel che è, è talmente più bella di quanto avrei potuto fare». Lo sforzo, dunque, è inutile.
Sembra piuttosto pessimista.
[L’intervistato si alza su tutt’e quattro le zampe, indispettito] Non lo è invece, perché alla fine rivela anche una grande verità, cioè che l’amore è al centro di tutto. Vede: noi cani amiamo molto, amiamo a dismisura. Accettiamo la lontananza, ma anche se torni dopo tanti anni sarai sempre ben accolto con tutto l’amore che abbiamo in corpo. Se ci regali un pupazzetto quando siamo cuccioli ce lo porteremo dietro per sempre. I calzini poi! Quanto amiamo i calzini! E i cuscini! Strapparli dal letto, distruggerli in mille pezzi, cospargere le loro budella per tutta la casa e… [Gali si è infervorato, è salito sopra il divano in preda ad un furore mistico, ma adesso sembra che non sappia come ci sia arrivato. Si ricompone in un attimo] L’amore è fedeltà sottintesa, è fiducia reciproca. Mangio dalla tua mano e non mi chiedo cosa tu mi dia. Quando vivi un amore del genere, allora le cose effimere come il teatro diventano piacevoli a nuovi livelli.
Parla di amore, ma lei per tutta la pièce è legato a una sedia.
[L’intervistato abbaia un po’ infastidito] E voi forse no? Anche voi quando il grande attore parla, sussurra, insinua, siete legati alla sua voce come una lumaca al suo guscio, ne fate sfoggio più tardi con gli amici, la usate per legittimarvi agli occhi degli altri. Anche io, come voi, quando l’attore mi chiede di ballare resto lì a guardarlo, non oso superare quel limite anche se invitato. Realtà e finzione non dovrebbero mai mischiarsi, come i croccantini di pesce e quelli di carne. Ma è proprio questa ambiguità, di avere un attore che parla di recitazione libera dalle parole del testo, ma che lo afferma proprio ripetendo a memoria da un testo scritto per lui, a rendere lo spettacolo affascinate e pericoloso. Lo spettatore sta sul bordo, è sempre al limite perché proprio come nella realtà non sa cosa accadrà.
[Gali sembra nervoso, il padrone ci dice di averlo sentito ringhiare tra i denti. A questo punto gli facciamo una domanda che ci hanno detto gradirà certamente]
Di recente abbiamo saputo che ha cambiato gusti in tema di croccantini. Una cosa particolare per un noto abitudinario come lei.
[Gali si distende visibilmente, ondeggia la coda e apre la bocca lasciando la lingua a penzoloni] Guardi, è una cosa un po’ buffa. Per anni non ho voluto mangiare i croccantini di pesce. Era una fissa la mia, me la portavo dietro da cucciolo, sa com’è. Poi un giorno il mio attore [è la prima volta che si riferisce a Musio così] si accorse per errore di averne comprato un pacco al posto dei soliti, avevano cambiato le grafiche o cose così. Dopo che ne versò un po’ meno del solito nella ciotola mi sono avvicinato avvertendo subito che qualcosa non andava. L’odore era chiaramente diverso, non terribile come ricordavo, ma riconobbi subito che fosse di pesce. Sulle prime mi rifiutai di mangiarlo, sì, è vero sono un abitudinario ma non per questo se fuori grandina voglio uscire, o se la lettiera puzza ci faccio i bisogni. Dopo qualche ora però la fame sopraggiunse, e mi fiondai sui croccantini come se se fossero dei gatti al forno con foie gras! E non erano per niente male, anzi!
[Ormai scodinzola senza tregua, l’operatore mi fa l’occhiolino per la perfetta riuscita della domanda e continuiamo]
Nello spettacolo sono presenti molti momenti di silenzio, anche se carichi di drammaticità.
Tu dici? [si ferma per un attimo, lentamente va sul balcone e mangia qualche croccantino. Indifferente come se n’era andato torna e ci risponde] Scusate, a parlare prima di croccantini m’è venuta fame. Per rispondervi: perché ci dev’essere qualcos’altro dietro al silenzio? Anche il pubblico sta in silenzio, cosa pensa in quei momenti, solo allo spettacolo? Magari l’attore dice una parola, chessò, «mela» e quella fa accendere in uno spettatore una lampadina: si era dimenticato la torta di mele in forno! E a quel punto la mente spazia oltre le pareti del teatro, per tornarci frastornata e smarrita. Anche il grande attore pensa, e come tutti lo fa in silenzio. Pensa come dire la battuta dopo, o come finirla, pensa a un gesto. O forse non pensa a niente. Io, per esempio, durante la pièce non parlo quasi mai, e penso a molte cose, tra cui la mia incredibile storia con i croccantini di pesce. Il silenzio non è comunque uno spazio dell’attore o dello spettacolo, è uno spazio al servizio del pubblico, che lo riempie a suo piacimento, caricandolo di questo o di quel significato. È la pagina bianca in mezzo al romanzo [si getta per terra, spalmandosi sul pavimento, la stanza adesso è molto più stretta].
Musio/Rambert a un certo punto si scaglia contro chi copia, chi replica Shakespeare, ma è possibile oggi creare qualcosa di completamente nuovo?
[Lo sguardo sempre incolore, non sembra nemmeno che ci stia ascoltando] Mi sa che non ha capito: il problema non è portare Shakespeare, ma come. Fare Goldoni come lo fanno tutti da vent’anni a questa parte non serve a niente, è finzione allo stato puro, l’attore non ha modo di esprimersi. Devi vivisezionare il classico per riprodurlo, devi rianimarlo sul tavolo operatorio come un novello dottor Frankestein, da una parte la scienza (il testo) dall’altra ingegno e la creatività (la follia). Devi essere pronto a compiere un gesto moralmente ed eticamente discutibile, non basta far vestire tutti di rosa per dire. Magari potresti farlo recitare soltanto da cani come me (è proprio una bella idea, fra l’altro! scriva scriva!) [faccio finta di scrivere] Il teatro non è come un dipinto, non è statico, vive dell’azione che è effimera, che non è replicabile, per cui ogni volta che fai le prove ne riesumi il corpo del drammaturgo, mentre la messa in scena è un’operazione a cuore aperto.
Perché il grande attore ce l’ha tanto con i mestieranti?
Perché non sanno far piangere, non riescono cioè accedere alle viscere che dicevamo prima. Il loro modo di vivere il teatro non concepisce l’ambiguo, vuole tenere lontano realtà e rappresentazione, invece di farli scontrare come i cani con i gatti (sì, lo so, mi contraddico. Prima ho detto che le due cose non vanno mischiate, ora dico che devono combattere. Che volete farci, le contraddizioni le vedete solo voi raziocinanti, quindi interpretate voi e distillate ciò che ritenete migliore, umani). Il mestierante legge un testo senza comprenderne le estreme conseguenze, lui non esiste, al massimo resiste. Per questo il grande attore cerca l’essere, è l’essere che ti fa piangere, ridere e abbaiare davvero e non solo superficialmente. Quando cogli l’essere non hai bisogno di urlare, non hai bisogno di fare il pagliaccio per attirare l’attenzione del pubblico. Puoi anche stare seduto su una sedia e parlare, sussurrando.
Ma quindi scusi, il teatro dovrebbe essere solo dei grandi attori? Dovrebbe essere solo un teatro impegnato? A chi parlerebbe un teatro così?
E a chi parla il teatro adesso? Un teatro senza grandi attori è l’eterna replica dello stesso spettacolo. Potremmo anche mettere in scena un solo testo per cento anni, ma se ogni sera lo interpretasse un grande attore diverso non sarebbe mai lo stesso [si alza e si scuote vistosamente, alzando una nube di peli lunghi come capelli]. Perché dobbiamo accontentarci? Chi ne giova? Si dice sempre che il teatro sta perdendo d’importanza, sta perdendo di profondità, eppure siamo ben contenti di vedere le sale piene per la quindicesima replica di una schifezza qualsiasi. Forse il teatro deve tornare a giocare nel fango per trovare se stesso.
Anche lei però vive senza grandi pretese, dormendo gran parte del giorno e mangiando croccantini.
Io non sono un grande attore.
Le posso chiedere la sua funzione all’interno dello spettacolo?
Esisto. Io esisto e basta.
A cura di Giuseppe Di Lorenzo
Per approfondire
Teatro, istruzioni per l’uso di Francesco Brusa http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/5/baci-dalla-provincia/451/teatro-istruzioni-per-luso-larte-di-pascal-rambert.html
Rambert e la critica al teatro contemporaneo di Ilaria Mazzarri http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/5/baci-dalla-provincia/459/rambert-e-la-critica-al-teatro-contemporaneo.html
INTERVISTA A MASSIMO GRIGÒ
Abbiamo incontrato al Teatro Manzoni di Pistoia Massimo Grigò, interprete del personaggio di Atto Melani ne La ferita della bellezza di Luca Scarlini, regia di Giovanni Guerrieri.
Foto di Michelle Davis
Il testo di Luca Scarlini trasforma in drammaturgia un frammento della storia di Pistoia…
Luca Scarlini si era già occupato del tema dei castrati in un romanzo dal titolo Lustrini per il regno dei cieli, che racconta di questa pratica e di come fosse diffusa in tutta Italia, non solo a Pistoia, ritenuta da alcuni la “maggior fucina”. Siamo nel periodo della Controriforma, durante il quale la Chiesa faceva auto-promozione con tutti i mezzi artistici di cui disponeva: la pittura, la scultura, ma anche le famose messe cantate. La Chiesa era il committente principale e i castrati nascevano per cantare nei riti religiosi. Questi godevano di un’estensione vocale impressionante e avendo la cassa toracica di un adulto, con le corde di un ragazzo, la loro potenza canora era inaudita. La parte più amara della loro esistenza consisteva però nell’impossibilità di scegliere: una volta castrati, infatti, non avrebbero potuto fare altro che cantare, e non tutti hanno avuto il successo di Atto – la maggior parte finiva per cantare in un paesino di montagna. Erano scelti da piccoli, poi strappati alla famiglia ed educati nelle accademie ecclesiastiche dove imparavano la musica; non studiando altro dalla mattina alla sera arrivavano all’orecchio assoluto già a partire dai 12 anni. Un importante passo nella carriera di un castrato era la carica di maestro di cappella, come Monsignor Felice Cancellieri che ha fondato qui a Pistoia l’Accademia dei Risvegliati (con sede nell’attuale Teatro Manzoni) ed è stato maestro dei virtuosi pistoiesi, in particolare dei fratelli Melani: Iacopo, Alessandro e Atto.
Parlaci della figura di Atto: è complessa ed eterogenea. Potresti fornirci un breve quadro storico?
Atto Melani offre molti spunti di approfondimento. Basti pensare alla serie di romanzi di Rita Monaldi e Francesco Storti (da Imprimatur in avanti) che hanno sfruttato il ruolo dell’Abate come probabile spia dei Medici. Poiché Atto, interpretato da me, lavorava come cantante alla corte di Luigi XIV, si narra che facesse l’informatore (forse doppiogiochista) per Firenze. Uno studio più storico e documentato è quello dell’anglosassone Roger Freitas, appassionato di opera lirica che nel 2009 ha scritto una monografia su Atto (Portrait of a Castrato: Politics, Patronage, and Music in the Life of Atto Melani). Sappiamo che era figlio del campanaro del Duomo di Pistoia, aveva sette fratelli, sei dei quali castrati. Lui, Jacopo e Alessandro furono i più celebri. A trent’anni Atto divenne protetto della famiglia Medici, i quali, come omaggio, lo mandarono a Parigi, dove Luigi XIV organizzava feste in suo onore e la regina gradiva ascoltarlo durante la prima colazione del mattino. Diventato gentiluomo e anche abate, quando smise di cantare iniziò la carriera del diplomatico; lo hanno definito spia, ma lui in realtà era una sorta di ambasciatore. Alla corte di Francia però non fu apprezzata la sua decisione di abbandonare la musica, né tanto meno l’ambizione di far parte del mondo nobiliare, nel quale entrò a fatica. Cadde in disgrazia con la sconfitta di Foquet nella successione di Mazzarino e fu esiliato a Roma, dove continuò a fare il gentiluomo investendo in proprietà e muovendosi all’ombra dei potenti.
Quanto è stato importante per te conoscere il contesto storico in cui è vissuto il personaggio che interpreti?
Bisogna fare uno studio approfondito, cercando di conoscere tutto quello che c’è da sapere per poter dar vita al personaggio, così se il regista mi dà una suggestione, essendo preparato, sono in grado di rielaborarla con più consapevolezza. Questa è la mia filosofia. Io non sono l’autore e nemmeno il regista, l’attore deve comunque seguire i loro suggerimenti e la lettura che fanno del testo. Io ho voluto approfondire il passato di Atto, scoprendo chi era suo padre, che da piccolo era povero e abitava in una fattoria, com’era la Pistoia del 1610-1620. Può capitare di avere un’idea che non corrisponde a quella del regista, ma è più facile trovare un punto di incontro se si padroneggia l’argomento trattato. Ci sono anche degli attori che portano avanti la propria idea, che entrano in contrasto con la visione registica, a me non è mai successo, io ho sempre incontrato registi carismatici.
Vuoi dirci qualcosa sulla tua formazione teatrale?
Ho iniziato alla Bottega di Gassman a Firenze; lui aveva il suo stile indimenticabile, che oggi sarebbe anacronistico da riproporre, ma per me è stata un’esperienza formativa importante. Un’attrice che ho incontrato e con cui ho lavorato per tre anni, altro caposaldo della mia formazione, è stata la ‘ronconiana’ Marisa Fabbri. Parliamo degli anni Settanta, quando lei aveva la mia età attuale e insegnava in Accademia a Roma. Siamo stati colleghi ma nonostante la sua grandezza non si è mai posta con superiorità nei miei confronti. Ho ‘rubato’ tanto da lei, diceva che «il teatro è sempre in divenire» perché specchio della società, quindi il tipo di recitazione deve stare al passo coi tempi, in metamorfosi continua. L’attenzione ai giovani è fondamentale, non si può parlare solo di sé, cosa che succede a molti attori; l’atteggiamento giusto è: «io mi propongo e cerco di migliorare e cambiare». Diffido sempre da coloro che hanno certezze.
Da dove è nata l’idea di mettere in scena proprio la storia di Atto Melani?
È nata da me. Quando hanno annunciato che Pistoia sarebbe stata Capitale Italiana della Cultura 2017 mi sono informato sulle eccellenze pistoiesi. Ne sono saltate subito due agli occhi: la storia dei fratelli Melani, virtuosi, e l’UFIP, azienda pistoiese famosa in tutto il mondo per la produzione di piatti per batterie. D’accordo con Annibale Pavoni, attore con cui collaboro da una decina d’anni – una di quelle amicizie che trovi in teatro e rimangono per tutta la vita – abbiamo presentato il progetto a Rodolfo Sacchettini, presidente dell’ATP. Lui ha approvato l’idea di uno spettacolo che parlasse della famiglia Melani e ha scelto Luca Scarlini come autore, perché aveva già trattato l’argomento, e Giovanni Guerrieri come regista.
Siamo curiosi di sapere quale dei tanti aspetti della vita di Atto emergono dallo spettacolo.
Luca Scarlini ha immaginato il rapporto tra Atto e l’unico fratello non evirato, Giacinto, scelto dal padre per portare avanti il nome della famiglia e soprattutto amministrarla. I proventi del lavoro dei tre fratelli più celebri (tra cui Atto) permise alla famiglia di acquistare alcune ville a Pistoia, lasciando quindi una ricca eredità ai nipoti. Il rapporto tra i fratelli, che non si erano mai parlati, è l’intreccio del racconto. C’è una notevole distanza tra i due: Giacinto è rimasto a Pistoia tutta la vita e ha una mente molto chiusa, l’altro ha viaggiato e ha ambizioni aristocratiche. C’è anche un terzo personaggio che fa da tramite col pubblico: ma ve lo presenta il collega Maurizio Rippa che lo interpreta.
Interviene il contraltista e attore Maurizio Rippa
Il mio non è un vero personaggio, è più un gioco metateatrale; semplificando potremmo definirlo un narratore. È un provocatore che commenta e fornisce i riferimenti storici e le informazioni necessarie per comprendere meglio i ruoli della vicenda. Io non sono presente nella storia ma solo scenicamente: un gioco registico nel quale i personaggi non mi vedono, gli attori sì. Avendo studiato prevalentemente musica barocca, sono stato scelto per dare voce alle parti cantate con l’accompagnamento di Manuel Gelli al clavicembalo.
Giulia Bravi
(con la collaborazione di Glenda Giacomelli e Francesca Monfardini)
“A FURY TALE”: C’ERA UNA VOLTA LA RABBIA
Per raccontare una “storia di rabbia” forse è necessario confondere la realtà con il teatro, portare in scena situazioni ironiche e a volte paradossali, esprimersi non solo attraverso la danza ma anche con un linguaggio che unisce il corpo alle parole. Il progetto di Cristiana Morganti in A fury tale (visto il 21 giugno al Teatro Manzoni di Pistoia in occasione del Pistoia Teatro Festival) è proprio raccontare una storia di rabbia e di rivalità, osservate da diversi punti di vista e in diversi contesti, confondendo sin dall’inizio la realtà con la finzione e interpretando con ironia ogni gesto, ogni scena, facendo ridere il pubblico per l’assurdità di certe situazioni ma allo stesso tempo spingendolo ad ammettere la naturalezza di quei paradossi.
Le interpreti sono due – pelle chiara, capelli rossi come la rabbia, longilinee: Breanna O’Mara e Anna Wehsarg; la coreografa decide di presentarle insieme a una terza danzatrice che avrebbe sostituito la Wehsarg durante la sua gravidanza, ma all’improvviso le quattro cadono a terra, la scena si fa buia, una musica assordante la invade, lo sfondo bianco si tinge come d’inchiostro scuro. Da quel momento inizia la storia delle due ballerine, in forte rivalità l’una con l’altra – entrambe hanno i propri sogni, progetti molto ambiziosi per il futuro: la più giovane, facendo intervenire uno spettatore che le porge una lavagnetta ed un gesso per poter spiegare con qualche segno confuso le proprie aspirazioni, sogna di aprire una scuola di danza e di avere una splendida famiglia; l’altra, aiutata da uno schema ordinato proiettato sullo sfondo della scena, spera in una buona carriera artistica, in una famiglia e nella salute, strettamente legata alla danza e allo yoga che costituiscono il primo punto trattato. Dallo scontro scaturisce la rabbia, espressa in tutte le sue forme e nei contesti più disparati, con diversi stili di danza accompagnati da musiche rock come da Bach, arricchiti di tanto in tanto da qualche frase in italiano, inglese, francese o tedesco. Le occasioni per confondere realtà e teatro sono molte, dal momento in cui la regista prende la parola per tradurre ciò che dicono le interpreti a quello in cui decide di salire sul palco per calmare la profonda crisi di rabbia e scoraggiamento di una delle due.
La narrazione si conclude riprendendo la scena iniziale: le due danzatrici, rialzatesi da terra, iniziano a ballare ma l’errore di una provoca la rabbia dell’altra, che la corregge, e pian piano il diverbio diventa furia. Nel finale, però, il dialogo tra le due è muto ed il loro scontro non è più una scena quotidiana, ma una pura azione coreografica.
Foto di Claudia Kempf
La scenografia spoglia si arricchisce via via di oggetti portati in scena dalle ballerine e da immagini proiettate sullo sfondo – animali dai colori innaturali, donne che saltano, cerchi di luce eclittici; l’illuminazione, mai banale, sfrutta anche fari posti lateralmente alla scena per illuminare da diversi punti di vista le due ragazze. Proprio le luci, in complicità con il suono, spesso sfruttando l’effetto stroboscopico, permettono di creare i momenti più espressivi e ironici: in una luce rossa che pervade tutto il palco, sulla base di un brano di musica metal, ad esempio, la O’Mara sfoga la propria furia coi capelli al vento di un asciugacapelli elettrico.
La varietà dei costumi permette non solo di scandire i diversi momenti del racconto, ma anche di accentuare l’assenza di separazione tra realtà e finzione, con cambi in scena al ritmo della musica, con precisi movimenti coreografici.
L’indagine condotta dalla Morganti è fortemente contestualizzata, ma allo stesso tempo esprime la realtà di chiunque voglia riconoscervisi, e la sua attenzione alle due facce dello spettacolo – l’interno e l’esterno – permette un’analisi più attenta e ironica, «un tentativo di mettersi in gioco per preservare attimi di verità». “Mettersi in gioco” è allo stesso tempo “prendersi gioco”: di loro stesse, con autoironia, grazie all’azione iniziale di gettarsi a terra ed interrompere repentinamente quella presentazione che, probabilmente, al pubblico non interessa nemmeno; ma anche del pubblico, incredulo ogni volta che scopre che la realtà che sta vivendo è, di fatto, spettacolo.
Se è difficile parlare di rabbia – qualcosa di così astratto e generico – in uno spettacolo teatrale, la Morganti ci riesce e nella maniera più efficace: rendendo il pubblico partecipe di questo gioco che non esclude nessuno.
Lapo Ferri